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Medio Oriente e Iraq, se crolla il sistema degli Stati nazionali. La sfida di superare fondamentalismo e autocrazie militari

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La crisi irachena sta portando al collasso il Medio Oriente così come lo abbiamo conosciuto negli ultimi decenni? Il rischio è forte e l’intervento occidentale in corso non sembra per ora in grado di mutare radicalmente il corso degli eventi. La guerra aerea americana e l’invio di armi ai curdi da parte dell’Ue, sono infatti due operazioni estreme messe in piedi in fretta e furia per arrestare l’avanzata dell’Is, lo Stato islamico, che fino a non molto tempo fa contava su effettivi composti da poche migliaia di uomini e oggi sembra diventato miracolosamente invincibile.

L’avanzata dell’Isis in Iraq (cioè lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante, oggi Is) non ha incontrato resistenze consistenti, lo ‘Stato’ iracheno si è dimostrato quasi inesistente sul terreno e le sue truppe si sono rapidamente dileguate di fronte al nemico. Una strategia voluta o una realtà di fatto? L’ex premier appena defenestrato, al Maliki, era un filo-iraniano convinto, appoggiato da Teheran, che ha escluso la minoranza sunnita dal governo del Paese, per questo oggi il suo allontanamento è considerato un bene da tutti. Ma qualcuno avanza l’ipotesi che la mancata risposta militare all’Isis fosse invece voluta allo scopo di arrivare a un intervento militare esterno per fermare ‘il terrorismo’ e giungere, quindi, alla spartizione dell’Iraq secondo varie sfere d’influenza fra le varie potenze regionali ciascuna con alleati ancora più lontani. Forse, come spesso avviene, la realtà sta nel mezzo: un disegno politico è sconfinato nell’inconsistenza militare e istituzionale del Paese con risultati drammatici, al solito, per le popolazioni, yazidi e cristiani in testa.

D’altro canto non si può dimenticare che negli ultimi anni uno stillicidio di notizie è continuato ad arrivare dall’Iraq: attentati, bombe, morti, sparatorie, aggressioni. Un fiume di sangue ininterrotto che mostrava come il Paese fosse stato tutt’altro che pacificato e come la sicurezza quotidiana fosse ben lungi dall’essere raggiunta. A farne le spese sono stati tutti: sunniti, sciiti, cristiani, curdi e via dicendo. A questo flusso di eventi drammatici non si è prestata molta attenzione o non si è voluto farlo, sta di fatto che ora la crisi è esplosa.

Al posto di al Maliki arriva ora al Abadi con il plauso internazionale e con l’obiettivo di tenere unito l’Iraq. Il risultato non è a portata di mano. Le cause dell’attuale pantano sono ormai lontane e la memoria torna fra l’altro alla gestione americana del post-Saddam quando si avvalorò l’esclusione totale dei quadri sunniti dall’esercito e dall’amministrazione con il risultato che l’impalcatura dello Stato si dissolse. Ma di fatto tutta l’operazione americana in Iraq – le due invasioni volute dalle presidenze della famiglia Bush, la guerra internazionale al terrorismo, l’espansione militare e petrolifera, il progetto di esportare la democrazia – oggi mostra le corde. Eppure la risposta data al problema dal presidente Obama, cioè il ritiro totale e inappellabile degli Usa dallo scenario mediorientale, suona come una beffa in primo luogo agli occhi degli iracheni.

Anche il vecchio slogan: ‘yankee go home’, suona ormai un po’ usurato. Lo spostamento degli interessi statunitensi nell’area del pacifico secondo l’opzione obamiana, è avvenuto infatti in modo repentino e ha lasciato un vuoto improvviso e clamoroso nell’area mediorientale dopo che, per lungo tempo, la Casa Bianca ne aveva gestito e organizzato i destini non senza commettere errori e nefandezze ma anche esercitando un ruolo decisivo negli equilibri della regione. La ritirata è apparsa allora come una smobilitazione e uno scarico di responsabilità mascherato dal principio del “fate da soli, non possiamo costruire la democrazia al posto vostro”.

Nasce qui la polemica innestata dall’ex Segretario di Stato e rivale democratica nella corsa alla Casa Bianca Hillary Clinton, la quale ha detto di recente come il principio minimalista “non fare cose stupide” proclamato dalla dottrina obamiana in politica estera, non poteva essere posto alla base del ruolo degli Stati Uniti del mondo. La Clinton ha contestato la mancanza di prospettiva e di principi guida ma soprattutto ha attaccato la Casa Bianca per non aver sostenuto e armato la rivoluzione siriana nella  prima fase, cioè in quel primo anno, anno e mezzo, in cui laici, musulmani moderati, etnie diverse si erano unite e ribellate alla dittatura di Assad. E’ in Siria infatti che nasce l’Isis e prende poi forma e sostanza con il procedere della guerra civile e il suo infilarsi in un tunnel senza uscita fatto di violenze, morte e distruzione in cui, alla fine, solo il regime di Damasco e l’estremismo fondamentalista sono rimasti in piedi. Per cui è ancora più grave e offensiva la beffa subita da quei siriani che oggi vedono come il mondo si accorga dell’Isis in Iraq dopo aver voltato voltato la testa, per tre anni, di fronte ai massacri di innocenti perpetrati da Assad (a Yarmouk, ad Aleppo), e poi abbia ignorato il dilagare sanguinoso delle fazioni fondamentaliste che hanno guerreggiato, non per caso, anche contro il Free Syrian Army, cioè il gruppo originario della ribellione oggi in grande difficoltà.

La latitanza americana del resto è emersa di nuovo nel recente confronto israelo-palestinese con le conseguenti stragi messe in atto a Gaza dall’esercito israeliano. In questo caso la Clinton sostiene fermamente le ragioni di Israele contro Hamas; la cosa ovviamente è opinabile, ma dal punto vista diplomatico ciò che conta è che fu lei a far sottoscrivere l’ultima lunga tregua fra il governo israeliano e i dirigenti del gruppo fondamentalista, mentre fu suo marito a gestire i negoziati fra Rabin e Arafat in quello che, a tutt’oggi, rappresenta il punto più vicino alla pace toccato in un conflitto infinito. Dunque, sembra dire l’ex Segretario di Stato (e forse candidata alla Casa Bianca), a una visione forte, per quanto contestata nel mondo, corrisponde un ruolo forte e autorevole in grado di far sottoscrivere accordi e patti.

Nessuna delle due visioni americane in campo è autosufficiente oggi (restando nell’area democratica), la stessa Clinton non sembra proporre grandi novità interpretative in senso generale, allo stesso tempo le variabili di cui tenere conto sono molte – economiche, energetiche, politiche: il rapporto con l’Iran, la crescita cinese, la nuova guerra fredda con la Russia di Putin ecc. D’altro canto la stagione delle primavere arabe dove una generazione nuova ha chiesto pane e libertà, giustizia e democrazia, è stata guardata con miope sufficienza e tutto sommato ignoranza dalle élitès occidentali da troppo tempo abituate a trattare con autocrati che avevano sì le carceri piene di oppositori, ma costituivano pur sempre un discreto argine contro il fondamentalismo. Nello stesso modo il tema diritti umani non viene messo in agenda dall’Occidente quando si parla di Medio Oriente; e c’è in questa impostazione una venatura di razzismo in quanto non si considerano sufficientemente evoluti gli ‘arabi’, figuriamoci i musulmani, per affrontare e fare propria la questione.

Si è detto, lo ha affermato Obama e lo hanno ripetuto alcuni osservatori, che in Iraq sta finendo il Medio Oriente nato con la fine dell’impero Ottomano dal quale si svilupparono diversi Stati. Ma forse questa lettura è incompleta: in Medio Oriente sta finendo anche l’ordine nato dalla decolonizzazione degli ’50-’60 che ha portato con sé l’esplodere dei nazionalismi, fenomeno strettamente connesso alla lotta per l’indipendenza a tutte le latitudini. La lunga fine degli equilibri nati a Yalta è anche alla base del ritorno islamico sia nella versione estremista che nel tentativo, portato avanti da settori crescenti delle società arabe, di mettere in rapporto Islam (inteso anche come tessuto culturale, come storia) e modernità, Islam e democrazia, Islam e laicità. In questo senso il ruolo delle donne è stato essenziale nelle rivolte delle varie primavere e non per caso sono loro a subire spesso gli oltraggi e le violenze maggiori da parte di islamisti radicali e squadracce militari di questo o quel regime.

Sembra insomma che la battaglia intorno agli Stati nazionali in Medio Oriente incrocia oggi, inevitabilmente, anche quella per la nascita di comunità plurali – cioè refrattarie all’assolutismo sia sotto il profilo etnico-religioso che sotto quello militare repressivo – in cui, in modo originale, minoranze e maggioranze che non di rado in base a tradizioni millenarie popolano la regione, riescano a vivere in pace e a costruire il loro futuro.


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