Ogni volta che torna in primo piano il tema della riforma della Rai, si potrebbero riproporre i titoli di qualche tempo e, addirittura, di anni addietro. Ne prendo due a caso del 12 marzo 2012. “Il Tempo”, quel giorno, titolava: “Partono le grandi manovre sulla Rai” sommario: “Sul Cda decide il Parlamento. Ma la riorganizzazione interna è in vista. Due reti commerciali e una con il canone. Cessione di asset e di sedi”. Una svolta, ovviamente tutta da discutere, sembrava ormai in vista. Ma lo stesso giorno – a conferma che la Rai è una questione che si innerva con i cambiamenti che la politica talvolta vorrebbe ma preferisce non fare –“L’Unità” sparava in testa: “Rai, la resa di Monti”, per precisare poi, con il titolo,che “La riforma non s’ha da fare. Il Pd attacca: noi non ci stiamo”.
Tornando indietro nel tempo, in una delle sue note settimanali nella consueta rubricaIl sabato del villaggio, il 10 maggio del 2008, su Repubblica, Giovanni Valentini titolava: “La nuova Rai, ultimo appello”. Si riferiva alle “considerazioni finali” del Cda allora presieduto da Claudio Petruccioli, che si avviva alla scadenza del mandato con un atto di difesa del servizio pubblico e con la sollecitazione a “nuove scelte strategiche”, compresa una “diversa collocazione proprietaria e istituzionale”. L’appello nasceva dalla considerazione che “I prossimi 6-9 mesi saranno decisivi per il futuro del servizio pubblico e della Rai”. Tra le urgenze, il trasferimento della proprietà a una fondazione o, comunque, ad un organismo indipendente dal Governo, una diversa commissione di vigilanza “meno pretorica” e, per la governance, un amministratore delegato. Da allora, in verità, nulla è cambiato su questi punti. Eppure, è di tutta evidenza che se questi veri e propri nodi non vengono sciolti, qualsiasi processo di cambiamento avrà il fiato corto. Ma, per procedere su questo terreno c’è da cambiare la legge Gasparri. E tutto ciò compete alla politica, la quale in quest’ultimo anno e mezzo si è posta altre priorità.
Il Governo Renzi ha dato uno scossone alla sua maniera: un taglio di risorse di 150milioni di euro invocando i sacrifici che deve fare tutto il sistema pubblico per risanare i conti dello Stato e per recuperare fondi da destinare alla socialità.
Per la Rai un momento di difficoltà reale e la scoperta comunque di essere di fronte ad un bivio: se la politica ritarda ancora le decisioni su nuovo assetto e su governance, anche a causa di questi tagli, si può stare fermi? La risposta è che certamente l’immobilismo è la cosa peggiore, anche perché il mondo della televisione e dei media è in profonda trasformazione e i mutamenti sociali consolidati ci offrono un’Italia e un paesaggio televisivo ben diverso da quello del 1975, quando venne fatta la prima vera riforma del servizio pubblico radiotelevisivo italiano.
Il direttore generale Gubitosi, aiutandosi con un gruppo di esperti interni, ha lanciato le linee di un nuovo progetto di riorganizzazione per generi, che prevede, tra l’altro, il superamento della “tripartizione” delle testate e delle principali tre reti generaliste.
Nessuno può immaginare se questo sarà il progetto o una parte importante del piano di una Rai del futuro finché non sarà fatta chiarezza, dal Governo e dal Parlamento,su quale sarà il nuovo assetto, la nuova missione e la nuova governance dell’azienda.
Tuttavia è un bene che si apra il dibattito pubblico quanto più aperto e chiaro possibile. “Il sasso” del piano Gubitosi, sottoposto all’esame del consenso ma non del volto del Cda, al di là di ogni altra considerazione, ha un merito: certifica che la Rai non può restare immobile e che non è immutabile. Innovare e cambiare si deve, nella chiarezza e in profondità, nell’interesse di un servizio pubblico che riqualifichi la sua missione in termini di indipendenza e pluralismo, con una gestione sottratta alla politica.
Quello del pluralismo non può che essere il tema dei temi. Si tratta di prendere atto che non basta considerare la fine dei tre grandi partiti storici (Dc, Pci, Socialisti e area laica) per immaginare un’informazione e un’offerta semplificata della Rai, se non si tiene conto che oggi più che mai il concetto di pluralismo va rispettato, sostenuto e alimentato, soprattutto laddove la povertà dell’informazione professionale è più bassa, o più condizionata da poteri impropri e talvolta criminali, oppure richiede un forte riconoscimento delle minoranze linguistiche e identitarie. Le redazioni e le produzioni regionali sono una straordinaria ricchezza dell’azienda e vanno messe a frutto nel modo migliore, in una dimensione di impresa nazionale di primaria rilevanza per la vita civile, per quella culturale e anche per quella economica.
Superare l’attuale tripartizione allora si può, facendo anche efficienze dal punto di vista gestionale per quanto concerne l’offerta sui temi e materiali oggettivi di conoscenza e scienza, ma bisogna saper allargare il campo sul bene pluralismo, garanzia di civiltà democratica. Questo è un passaggio fondamentale.
Vale per i telegiornali e per l’informazione in generale; deve valere per i format dei programmi delle reti. E allora il tema non può essere ristretto solo ai telegiornali ma allargato all’informazione che si fa con le reti, con programmi e inserti specifici, valorizzando tutti i giornalisti con una nuova policy aziendale.
Si può fare una Rai migliore sicuramente spendendo meno, se si sceglie bene la missione e si esaltano i talenti e le risorse disponibili per realizzarla.
Spingere e liberare le forze della creatività e del lavoro, anche quello giornalistico diffuso su tutto il territorio nazionale, sarà esercizio e sfida fondamentale. Allora guai a pensare a una schiera di ragionieri tagliatori in campo. Sarà bene cogliere quanto di buono può dall’idea del progetto Gubitosi c’è e può essere valorizzato. Bisognerà aver ben chiaro che c’è necessità di un progetto complessivo che si misuri sulle missioni e non sui nomi o sul futuro di qualcuno di essi. Se si riducesse davvero, come parte dei commentatori dubitano, in una grande scena nella quale ricollocare, marginalizzare o promuovere direttori vecchi e nuovi tutto sarebbe inutile. Allora davvero, prima o poi, qualcuno un commissario tagliatore o liquidatore finirebbe per mandarlo davvero.
Un progetto di riordino, quindi, è bene che diventi materia di discussione aperta a tutti i soggetti e non limitata al circuito interno dell’azienda o dei poteri politici dominanti o più influenti. La questione si pone in termini di concretezza e di civiltà democratica. Una considerazione, questa, che è certo appartiene all’esperienza del sindacato e alla sua funzione sociale per la partecipazione ai processi di una economia del lavoro che sia civile. Ma, quando parliamo di servizio pubblico, a unire e tenere insieme la questione è una condizione comune: quella di cittadini titolari di diritti costituzionali.
Se l’azienda Rai trasformerà l’idea di riordino in un vero progetto, lo porti presto con chiarezza su tutti i tavoli del confronto pubblico e sociale, aprendo una vera e propria sfida di innovazione e cambiamento sul merito delle cose. E così venga fuori anche l’idea di riforma che tocca alla politica.
Come hanno più volte dichiarato, la Fnsi e l’Usigrai invocano questa sfida ripetendo con chiarezza che cambiare deve significare migliorare e rafforzare il servizio pubblico radiotelevisivo, non deprimerlo, né dissolverlo.
Certo è che stavolta buttare la palla altrove come capita da decenni sarebbe la soluzione peggiore del male. Forse stavolta è davvero cominciata la fase del l’ultimo appello.