I fenomeni musicali rappresentano un terreno importante per studiare l’immaginario giovanile, visto che la musica è usata dai giovani per costruirsi un’identità, per auto-rappresentarsi nel sociale. Chi scrive ha ben chiaro questo concetto avendo avuto, in un recentissimo passato, l’occasione di lavorare proprio grazie alla musica con i giovani. In quel caso mi capitò di operare in quel di Casal di Principe, insieme ad un grande Maestro, Carlo Faiello, con ragazzi che non provenivano da esperienze di vita borderline, ma con giovani che vivevano un’emarginazione culturale di chi, purtroppo, è costretto a vivere in territori conosciuti solo per note tristi. Per questi motivi ho apprezzato ancora di più il libro della sociologa Rosa Vieni, “Il suono che parla”, edizioni “Sensibili alle foglie”, che con il suo saggio ci racconta l’esperienza avuta con i ragazzi reclusi nel carcere minorile di Airola, in provincia di Benevento, ai quali ha proposto un percorso di scrittura ed espressione hip hop. Ma quale strumento si può utilizzare per conquistare l’attenzione di un ragazzo che semmai, fino al giorno prima, otteneva rispetto incutendo paura negli altri? Ovvio, la musica. L’unico linguaggio che non ha bisogno di alcuna traduzione o interpretazione. L’unico linguaggio con il quale si possono, immediatamente, abbattere barriere, superare agilmente i sospetti ritrovandosi insieme grazie alle sette note del pentagramma.
Dunque la Vieni, senza compiere alcun volo pindarico, pensa immediatamente al Rap per parlare e far parlare i “suoi” allievi che durante il percorso hanno interagito con Luca Persico, in arte Zulù, dei 99Posse, Enzo Avitabile, i Fuosseria, un “giovane” Rocco Hunt, prima del successo sanremese, e ad altre voci campane del settore come Shark Emecee, Mef e Doc Shoc. Alla fine del testo compaiono i brani composti dai ragazzi che finalmente scrivono tutta la propria rabbia, la voglia di guardare al di là di stereotipi e barriere. Sarebbe bello se a questo riuscitissimo progetto della Vieni, se ne potesse aggiungere quello di qualche etichetta discografica che, con un po’ di pazienza, limando un attimino i testi, li raccogliesse in un disco che potrebbe così rappresentare anche una prima fonte di guadagno “normale” per questi ragazzi.