La notte tra il 28 e il 29 di luglio è stata forse una delle più pesanti per la gente di Gaza. Bombardamenti incessanti dal mare, dal cielo e dai carri armati israeliani. Gli inviati dei giornali e delle televisioni erano quasi tutti concentrati nei pochi alberghi o case in riva al mare, più o meno vicini al porto. Proprio il porto fu bombardato più volte quella notte. E quando senti arrivare il botto fai fatica a distinguere la distanza “chirurgica” che c’è tra la tua stanza nella quale vanno in pezzi solo i vetri della finestra e quella della casa bersaglio che va in macerie cento metri più in là. Così si è lavorato in questi giorni a Gaza, con la possibilità che un razzo partisse all’improvviso dal cortile del palazzo di fianco trasformando l’intera zona in un potenziale obbiettivo dei bombardamenti israeliani. Ma quello che forse vale la pena di sottolineare è che questa volta i giornalisti, per merito e apertura dell’esercito israeliano bisogna riconoscerlo, sono entrati a Gaza in grande numero, a vedere e a raccontare quello che vedevano. Non è la prima e purtroppo forse non sarà l’ultima puntata di questo ciclico esplodere della violenza e delle armi tra israeliani e palestinesi, meglio tra i rispettivi irriducibili estremismi e fondamentalismi, ma stavolta è stato possibile raccontarla in diretta. Questo ha provocato un grande nervosismo soprattutto nel governo israeliano che più volte ha invitato i giornalisti a dire la verità su quello che avevano visto e a farlo una volta usciti da Gaza, liberi cioè dalle pressioni e dalle censure di Hamas. Ed è quello che noi, con tutti i nostri limiti, abbiamo fatto, sia dentro che fuori Gaza. Abbiamo girato, visto, parlato, ascoltato e la distruzione di interi quartieri era impossibile non vederla, la condizione di migliaia di rifugiati, pigiati a dormire in cento dentro una classe scolastica era impossibile non raccontarla. E anche la storia dei razzi, pericolo costante non solo per gli israeliani oltre confine ma anche per gli stessi abitanti di Gaza -più di una volta sono esplosi, come davanti al muro dell’ospedale Shifa, prima ancora di alzarsi in volo- era storia quotidiana dei nostri pezzi. La tattica di Hamas era evidente, lanciava i razzi da qualunque posto e tutti i posti avevano a che fare, nel raggio di qualche metro, con la vita della gente comune. Per questo la discussione sui civili usati come scudi umani ha poco senso, questo era lo scenario. Noi abbiamo visto bombardamenti israeliani abbattere case e lasciare intatti gli edifici vicini, ma abbiamo visto anche villaggi e quartieri rasi al suolo, compresi parchi giochi e giardini zoologici. Di questo abbiamo raccontato, di come l’orrore della guerra sia difficile da nascondere se riusciamo a vederlo coi nostri occhi. Certo potevamo affidarci ai file di qualche agenzia video locale e mescolarli ai filmati forniti quotidianamente dall’esercito israeliano che mostravano i tunnel scoperti e gli obiettivi centrati dalle bombe laser. Avremmo avuto pezzi “equilibrati” nel minutaggio, nelle ragioni e nei torti, ma sarebbero stati resoconti senza anima e senza la paura che ti prende quando la guerra senti che sta lì e fa male, davvero. Per questo credo che il mestiere dell’inviato valga ancora la pena di tenerlo in piedi, nonostante internet e la crisi mondiale dell’editoria.
E un’ultima cosa voglio dire, al mio direttore generale, quella notte tra il 28 e il 29 luglio, quando bombardavano il porto, i giornalisti della Rai erano là, c’era Lucia di Rainews24 con Lorenzo, c’era Maria della radio, c’era Marilu del Tg1 e Riccardo del Tg3. Tutti ci siamo cercati quella notte per sapere come stavamo e se tutto andava bene. Quella notte li, sembravano davvero una squadra.
* Inviato del Tg2