Se n’è andato Federico Orlando, giornalista liberale e appuntito, una carriera a confronto con le grandi questioni del paese e nonostante questo un maestro capace di insegnare, con garbo e umiltà, il mestiere e la sua autonomia all’ultimo arrivato in redazione. Aveva della cronaca politica, ma prima ancora della politica, un’idea alta, fuori commercio. Un’idea novecentesca, si direbbe oggi con un filo di disprezzo, coltivata in quasi un secolo di letture e scrittura, secolo di grande storia e di cronisti di razza. Come lui.
È stato al fianco di Indro Montanelli nel tormentato addio al Giornale di proprietà di Berlusconi, che poi ha raccontato nel suo Il sabato sera andavamo ad Arcore. Ma era pudìco su quest’episodio pure fondante della sua vita (e del giornalismo italiano): benché montanelliano, Orlando non ha mai cercato luce riflessa. Anzi si intuiva una sfumatura non benevola verso quelli che esibivano il vecchio direttore come un marchio di garanzia. Ma il ’94 lo aveva segnato, come il conflitto di interesse segnava tutto il paese. E così per lui, liberale nel partito guidato da Malagodi, fu naturale nel ’96 candidarsi nel Pds, poi nell’Idv, fino ai Democratici di Prodi. E altrettanto naturale fu poi ritirarsi con eleganza dagli scranni di una politica inelegante. «Quello di Berlusconi», scrisse in Lo stato sono io, «è l’ultimo governo della guerra fredda, rimessa in piedi come il soldato morto di Brecht». E lui, «moderato», volle combattere il nuovo anticomunismo, «disseppellito come il soldato, dichiarato abile e arruolato, portato in corteo da signori in frac e dame semisvestite, marcette briose, preti arrancanti col turibolo per coprire il puzzo (…). Brecht non avrebbe immaginato d’aver scritto la ballata dell’Italia di Berlusconi. Basta sostituire al soldato morto il Muro caduto».
Così, sempre con generosità nei confronti delle giovani leve, accettò di collaborare con il settimanale Avvenimenti dei ’comunisti’ Diego Novelli e Adalberto Minucci, un tempo lontanissimi da lui. Teneva la rubrica «Palazzo», affresco a puntate di quegli anni: dove ironizzava sulla cultura della destra coeva, «un’intellighentia di nuovo tipo, quella liberal-clericale, che è assolutamente un inedito nel pensiero occidentale: quasi come lo stalinismo-pluto-mediatico-anticomunista». E metteva in guardia dalle «infiltrazioni di questa cultura regressiva», «La Grande Alleanza Democratica non può andare a compromessi con quella cultura». Aveva visto lungo.
Orlando è stato, accanto a Beppe Giulietti, il fondatore e presidente dell’associazione Art.21, torre cavallara della libertà dell’informazione. È stato un laico colto e esigente che sorvegliava un suo filo di anticlericalismo. Memorabile la sua recente risposta su Europa, il quotidiano di cui era oggi condirettore e editorialista sub speciem di risposta alle lettere – come Montanelli – a proposito dell’inchino di Vibo Valentia e dei santi appaltati alla ’ndrangheta: «Alla diocesi, sarebbe bello se papa Francesco, a cui non manca la capacità di dire belle parole, gliene dicesse qualcuna». Come l’ultimo Montanelli, è stato un difensore di diritti civili, cosa che lo ha portato negli ultimi anni accanto ai radicali di Marco Pannella. Lucido e ironico fino all’ultimo, alla sua età (aveva 85 anni, era nato nel 1928 a San Martino in Pensilis di Campobasso, nel sempre suo Molise; se n’è andato per una malattia proprio quando ci aveva giurato di stare meglio) non ha mai smesso di credere di essere più interessato che interessante, di prendere appunti, di fare domande – quello che qualifica questo mestiere -, di essere convinto di non saperne mai abbastanza. Lascia due figli giornalisti, Alessandra e Edoardo. A loro, a sua moglie, ai colleghi di Art.21 l’affetto del manifesto. E ai colleghi di Europa, che lunedì 11, domani, alle 17 aprono la redazione agli amici per ricordarlo.
*il manifesto del 10 agosto 2014