Chiusi in un campo sportivo. All’aperto, senza alcun riparo dalla pioggia, dal freddo della notte, dai proiettili dei miliziani che controllano che non si muovano e non esitano a sparare. Sfuggiti alla guerra e ora prigionieri di un’altra guerra proprio nell’ultimo paese prima del mare, prima del salto nel buio nel Mediterraneo, che se non ti inghiotte ti lascia la speranza di nascere ancora.
Chiusi in un campo sportivo a Tripoli, in mezzo alle fiamme della guerra civile, costretti a diventare muli per trasportare munizioni, a togliere le mine dal passaggio dei mezzi corazzati, a mani nude.
In Libia chi è in fuga dalle guerre e dalle violenze delle dittature dei paesi sotto il Sahara, diventa carne da macello. Padre Mussie Zerai lo denuncia da tempo attraverso l’agenzia Habeisha. Riceve continuamente messaggi disperati dalla Libia, da quel paese che se prima era ostile e pericoloso ora, spesso, diventa letale per chi scappa da altre guerre e cerca asilo.
“Abbandonati da tutti”, dice padre Mussie, abbandonati dal mondo che ha evacuato il personale dalle sedi diplomatiche e non mostra nessun interesse e nessuna volontà di provare ad aprire dei corridoi umanitari che consentano a quelle persone di s fuggire da un’altra guerra che non gli appartiene e di sopravvivere al mare.
Abbandonati da tutti, ma non dai trafficanti di uomini. Per loro l’umanità che fugge è la prima fonte di guadagno. In Italia ne sono arrivati 113 mila da gennaio 2014, alla fine dell’anno potrebbero essere 140 mila. Ognuno di loro paga 1.600 dollari per la traversata del Mediterraneo. Facile fare i conti: fino ad ora il guadagno netto dei trafficanti equivale a 180 milioni di dollari. Alla fine dell’anno saranno 224 milioni di dollari. Montagne di soldi che vanno a finanziare la guerra tribale della Libia, il caos e l’assenza di controllo nel quale l’umanità in fuga diventa carne da macello.
Mandati in mare su barche e gommoni di cartapesta che affondano sempre più spesso. In queste ore sulle spiagge di Tripoli il mare continua a portare corpi. Sono i 200 dispersi del naufragio di qualche giorno fa che non ha cercato nessuno.
Altri corpi erano su un gommone alla deriva. Diciotto morti e 73 superstiti. Poi altre barche di legno rovesciate. È successo due volte. Erano partite da poco dalla Libia.
Si muore come in guerra, anche se non si spara. Duemila morti dall’inizio dell’anno. Duemila morti. Bisogna ripeterlo più volte per riuscire a capire la portata di questa strage che le navi di Mare nostrum cercano di contenere. Duemila morti. Forse non basta, in realtà, per rendersi conto.
Duemila morti, e non è il bilancio di una guerra. È il bilancio della fuga dalla guerra.
Ed è un bilancio parziale, calcolato su dati reali. Poi ci sono le barche che nessuno ha visto affondare. Sparite nel nulla, il numero reale è certamente più alto. Come succedeva prima di Mare nostrum quando nessuno vedeva. Un calcolo per difetto conta 20 mila morti negli ultimi dieci anni. Siamo nella media, ma ora li vediamo i morti. Abbiamo iniziato il 3 ottobre a Lampedusa a contare i corpi chiusi nei sacchi. Dicono che Mare nostrum sia la causa di tutti questi morti, ma non è vero. Mare nostrum li conta soltanto i morti. Ce li fa vedere. Come ci mostra i vivi, quelli che sono sopravvissuti, salvati dalle navi militari. In fuga da guerre lontane di cui non sappiamo nulla, guerre che non vediamo e che quindi non esistono. Come non esistevano i morti del Mediterraneo, prima di Mare nostrum.
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