2 agosto 1980, a Bologna fu strage

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Sono trascorsi trentaquattro anni dal 2 agosto 1980 quando alla Stazione di Bologna, alle ore 10,25, una valigia, lasciata nella sala d’aspetto di seconda classe, contenente venti chili di esplosivo militare gelatinato Coupound B, esplose sbriciolando la sala, sfondando quella di prima classe, due vagoni del treno proveniente da Basilea diretto ad Ancona e il bar-ristorante. Una grande onda anomala travolse bambini, donne e uomini, riversandosi in più punti: verso la piazza, verso il primo binario, nel sottopassaggio. In pochi secondi 85 furono le vittime e 207 i feriti di cui 70 con invalidità permanente. Furono Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, terroristi neofascisti appartenenti ai Nar, a mettere la bomba all’interno della Stazione.

In questi giorni la procura di Bologna ha chiesto l’archiviazione per la “pista palestinese”, considerata alternativa a quella neofascista, uno dei tanti tentativi di depistaggio, i magistrati bolognesi hanno anche decretato l’inesistenza del così detto “lodo Moro”, presunto accordo con i palestinesi, la cui violazione avrebbe portato alla vendetta consumata con la strage. Il 2 agosto per i famigliari delle vittime di tutte le stragi e per i bolognesi è la giornata della memoria, per non dimenticare, quest’anno cade di sabato come allora. Per gli italiani era l’inizio delle ferie, finalmente un giorno sereno in un anno segnato da una lunga striscia di sangue: il 6 gennaio fu assassinato il presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, i sospetti del giudice Falcone caddero sul terrorista nero Fioravanti, riconosciuto dalla moglie di Mattarella, in macchina con il marito nel momento dell’omicidio. Le prove non furono sufficienti per incriminarlo, ma il dubbio, nonostante le condanne definitive a Riina, Greco, Brusca, Provenzano Calò Madonia e Geraci, rimane perché la presenza a Palermo di Fioravanti e Mambro fu accertata già allora: i due terroristi erano a casa di Francesco Mangiameli, dirigente del movimento neofascista Terza posizione con Roberto Fiore, Gabriele Adinolfi e Giuseppe Dimitri. Mangiameli qualche mese dopo fu ucciso dallo stesso Fioravanti.

Le Brigate Rosse avevano massacrato a Milano tre poliziotti della Digos: Rocco Santoro, Antonio Cestari, Michele Tatulli; a Genova il tenete colonnello dei carabinieri Emanuele Tuttobene e l’agente Antonio Cosu; a Mestre il dirigente del Petrolchimico di Marghera Silvio Gori. La violenza delle Br sembrava inarrestabile: uccisero a Roma il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Vittorio Bachelet, poi a Salerno il sostituto procuratore Nicola Giacumbi; a Milano, il giornalista del Corriere della sera Walter Tobagi; ancora a Mestre il dirigente dell’antiterrorismo Alfredo Albanese. I Nar non furono da meno: a Milano assassinarono il sostituto procuratore Mario Amato, questa volta a colpire furono Gilberto Cavallini e Ciavardini, quello della strage di Bologna. Amato fu ammazzato perché aveva ricostruito le connessioni tra la destra eversiva e la banda della Magliana, i cui contatti andavano dalla camorra a Cosa nostra, alla massoneria. Dalla banda i Nar si rifornivano delle armi per i loro delitti. Il gruppo criminale romano fu coinvolto negli omicidi Pecorelli e Calvi, nel sequestro Moro e contribuì ai depistaggi della strage di Bologna. Il 27 giugno alle ore 20,45 scomparve dai radar, sopra il cielo di Ustica, il Dc-9 partito da Bologna per Palermo con 81 persone a bordo. La Corte di Cassazione, il 28 gennaio 2013, ha sentenziato che fu un missile o una collisione con un aereo militare ad abbattere il Dc-9 che si era trovato nel mezzo di una vera e propria azione di guerra.

Quando, nel giorno della memoria, la sirena suona alle 10,25 e nella piazza cade il silenzio, torna, in chi ha vissuto quel momento, tutta l’angoscia creata dai misteri che avvolgono le stragi e dal sangue versato negli anni di piombo: colpire Bologna allora, con la sua storia di città resistente, simbolo del progresso sociale e politico, ebbe un duplice significato: fine delle zone franche e la dimostrazione che nel nostro Paese sarebbe potuto accadere qualsiasi cosa, perché non esiste una strage nella quale non siano coinvolti apparati dello Stato: a Palermo è in atto il processo sulla Trattativa tra Stato e mafia dove per la prima volta sul banco degli imputati siedono insieme politici, uomini delle istituzioni e capi di Cosa nostra. Le stragi cominciarono nel lontano 1947 da Portella della Ginestra, poi a Bolzano a Malga Sasso, Belluno a Cima di Vallona, Milano Piazza Fontana, Gioia Tauro, Peteano di Sagrado vicino a Gorizia, ancora a Milano alla Questura, Brescia piazza della Loggia, San Benedetto Val di Sambro: l’Italicus nel 1974, poi ancora nel 1984, in mezzo la Stazione di Bologna, poi nel 1993 Firenze con i Georgofili e Milano con via Palestro. Quante vite innocenti spezzate. La sirena delle 10,25 significa tutto questo ma non solo, negli anni è diventata il simbolo delle false promesse dei politici, l’ultima lo scorso anno dal ministro Del Rio, in rappresentanza del governo Letta, quando si impegnò a inserire nel decreto Sicurezza il pagamento, da parte dell’Inps, degli indennizzi  previdenziali alle vittime rimaste invalide. Come sempre i fatti smentiscono le parole che servono esclusivamente per passare “la nottata” e per prendere qualche fischio in meno.

Quest’anno la delusione dell’Associazione famigliari delle vittime, presieduta da Paolo Bolognesi è data, per l’ennesima volta, dall’assenza del presidente del Consiglio. Renzi preferisce muoversi su terreni sicuri: a Genova all’arrivo della nave Concordia o a Palazzo Chigi a ricevere la squadra italiana di scherma per festeggiare le tante medaglie, mandando al suo posto il ministro Poletti. L’assenza probabilmente è stata influenzata dall’allarme della Questura per la presenza nella piazza della Stazione dei collettivi e dei sindacati di base, invece sarebbe stata l’occasione per ricevere un po’ di applausi, perché Renzi, rispetto a tutti quelli che lo hanno preceduto a Palazzo Chigi, una cosa importante l’ha fatta, dopo anni di sollecitazione delle associazioni dei famigliari delle vittime e di Bolognesi in particolare (che è entrato in Parlamento solo per raggiungere questo obiettivo), è stato rimosso dagli atti, nell’aprile scorso, le classifiche di segretezza (riservato, riservatissimo, segreto, segretissimo), questo consentirà la libera consultazione rispetto al limite minimo previsto di quarant’anni della “memoria dello Stato”, fatta da ben 110 chilometri di documenti.

E’ il primo atto verso la trasparenza perché il vero problema sulle stragi è da sempre il segreto di Stato. E’ stato un messaggio politico importante anche nei confronti di chi negli anni ha insabbiato: “Le coperture sono finite, nessuno può considerarsi al di sopra di ogni sospetto”. Questo è solo il primo atto di giustizia nei confronti dei famigliari delle vittime e dei cittadini, il secondo sarà quello di cambiare i dirigenti responsabili dei servizi, come ha dichiarato Bolognesi: “Gli uomini abituati a coprire non possono essere quelli che scoprono”.


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