Il titolo chiave stamani lo troverete su Repubblica: “Renzi: il Parlamento faccia le riforme o andiamo al voto”. Ma ha parlato anche l’uomo del Colle: “Riforme, la spinta di Napolitano”, la Stampa. E Galan ha dovuto lasciare una clinica alla volta delle patrie galere : “Renzi e Boldrini mandano in carcere un uomo malato e (forse) innocente”, il Giornale. Mentre Emilio Fede consumava un (inconsapevole?) tradimento dell’antico suo benefattore: Silvio? “Mafia, soldi, mafia, soldi”. “Ecco chi è il costituente B”, commenta il Fatto. Intanto Israele e il suo governo scoprono il prezzo della guerra: “Razzi su Tel Aviv, sospesi i voli”, Corriere della Sera. Infine il Sole24Ore lancia un allarme: “Edilizia ai livelli del 1967. Crollano gli investimenti”.
Perché dico che quello di Repubblica è il titolo chiave? Perché Matteo Renzi ha capito che le cose non si stanno mettendo bene per il suo governo: l’Europa ha opposto un muro di gomma alle sue pretese (Mogherini, flessibilità), la crisi morde e in cassa non ci sono soldi per realizzare nemmeno una delle meraviglie promesse, taluni osservatori cominciano a denunciare “il carniere quasi vuoto delle riforme del governo Renzi nei suoi primi 150 giorni di attività”, Daveri sul Corriere. Così non va. Meglio far saltare il banco e andare al voto sulla scia del 40,8 per cento.
Ieri se lo è fatto chiedere da Bob Giachetti: “Matteo, cosa aspettiamo ancora ad andare a votare?”. Oggi su Repubblica spiega a De Marchis: “Questo Parlamento è a un bivio: o dimostra di essere capace di cambiare facendo le riforme o si condanna da solo e si torna a votare”. Naturalmente, da politico spregiudicato e senza scrupoli qual è, il buon Matteo opera il solito transfert: le riforme che non riesce a fare non sono quelle che l’Europa attende, del lavoro, della pubblica amministrazione, del fisco (con il contenimento di evasione ed elusione), della giustizia per colpire a fondo la corruzione (vero spread dell’Italia). No, la riforma che manca è la trasformazione del Senato in un bivacco di consiglieri regionali (con qualche sindaco) rigorosamente nominati dai partiti locali! Perciò, confida a De Marchis, “a ogni giorno di ostruzionismo corrisponde, per me, un punto guadagnato nei sondaggi”. Evviva!
Ecco che l’intervento di Napolitano, “Non si agitino specchi e macchinazioni di autoritarismo, il bicameralismo paritario è anomalia italiana”, non è stato, forse, l’ennesimo intervento a gamba tesa di un Presidente che vuole – lo sappiamo – il patto con Berlusconi per riformare la Costituzione, ma un grido di dolore, o almeno un lamento. Attenti o questo ragazzo mi costringerà a sciogliere le Camere. Ecco che sul Fatto Civati chiede all’inquilino del Quirinale di ricevere gli eretici, o “dissidenti del Pd”, chiamateci come volete. Insomma coloro che, più di altri, insistono sul merito della riforma (elezione diretta, riduzione dei deputati, nesso con la legge elettorale per salvaguardare l’indipendenza del Quirinale dalla dittatura di una minoranza). Perché dopo tutto Napolitano è il garante della Costituzione e la fretta non può costringere a fare spropositi.
Intanto ieri la conferenza dei capi gruppo non se l’è sentita di imporre la ghigliottina al dibattito sulle riforme – sarebbe stata una primizia assoluta – ma ha condannato l’aula di Palazzo Madama a qualche settimana di lavori forzati. Da martedì 29 fino almeno all’8 di agosto, sabato e domenica compresi, l’aula esaminerà per 12 ore al giorno testo ed emendamenti della riforma costituzionale, un’altra ora e mezza servirà per mangiare, far pipì e riunire le commissioni. Sergio Rizzo sul Corriere scrive che è “una buona notizia Un modo (di lavorare) più in sintonia con i problemi di un’Italia che di problemi è piena”, ma non scrive che detto calendario è stato approvato con i voti decisivi dei famosi “dissidenti” del Pd – la mozione Romani, Forza Italia, è stata respinta per 5 voti – né racconta come, in piena conferenza dei capi gruppo, la Boschi abbia respinto un’offerta dell’opposizione, pronta a ritirare molti emendamenti (ostruzionistici) in cambio di un dialogo sul merito.
A pensar male si fa peccato, ma troppi indizi dicono che è proprio Renzi a non volere più la riforma del Senato. Forse ha capito di aver partorito un “Quasimodo”, quasi a modo, un informe pasticcio, insomma. O forse gli serve un caro nemico su cui scaricare la colpa degli insuccessi di governo. Forse ha davvero scelto di appellarsi al popolo, lui circondato dalle sue amazzoni, contro l’Europa dei burocrati, i conti testardi dell’economia, la politica -“vecchia”, per definizione – i lacci e i laccioli che avrebbero frenato Berlusconi e vorrebbero rallentare persino lui. Per carità, si vada al voto. In democrazia è cosa bella e giusta ridare la parola ai cittadini, quando un governo finisce in un cul de sac. Spero solo che il senato abbia un sussulto di dignità e non voti l’orrenda legge elettorale detta Italicum. Spero che i miei colleghi giornalisti sentano dell’orgoglio e la smettano di raccontare solo e sempre l’Italia secondo Matteo.
Intanto persino Ainis s’è accorto che l’equilibrio tra i poteri scritto in Costituzione corre qualche rischio: “Con un Senato di 100 componenti, e senza più il concorso dei delegati regionali, il presidente verrà eletto da un collegio di 730 parlamentari. Ergo, al partito che incassa il premio di maggioranza nell’aula di Montecitorio basteranno 26 senatori per spedire un proprio fiduciario al Quirinale. E il fiduciario nominerà a sua volta 5 persone di fiducia alla Consulta, dispenserà grazie e medaglie ai fedeli del partito, ne eseguirà ogni ordine da uomo fidato. E no, non ci fidiamo”.