Mi mette molta tristezza scrivere di Tiziano Terzani, perché non si tratta solo di celebrare il decennale della morte di un grande maestro, ma perché in fondo si tratta di mettere la parola fine al giornalismo stesso. Quello che ti fa sopportare dolori e fatica pur di arrivare a raccontare un mondo sconosciuto ai più, soprattutto quella parte difficile del pianeta dove i turisti certo non si avventurano. E che, al massimo, si visita ma senza la voglia di capire. Già, capire: questo è il concetto che Terzani ha perseguito per tutta la vita. Capire prima di raccontare. Mettendo in crisi anche le certezze presuntuose di direttori che dalla scrivania avevano altre idee sui percorsi che erano costati sudore e rischi per una testimonianza diretta, radendo al suolo magari verità precostituite. E questo gli faceva sempre ribollire il sangue di toscanaccio.
Mi piace molto che si ricordino di Terzani i “viaggi fuori e dentro” perché il viaggio comincia sempre molto prima dei “giri di giostra”. Spesso, per lo stile, è stato accomunato a un altro grande mostro sacro, Kapuscinski, sicuramente in comune aveva la voglia (e la capacità) di capire, ma forse li rendeva diversi l’anima. Tiziano scriveva in prima persona, metteva sul piatto anche le sue emozioni personali come fa un vero cronista. E guai a dire che si tratta di un’epoca passata perché i suoi diari quotidiani non erano altro che i blog di oggi. Certamente mettere in ballo se stessi porta al caratteraccio e alla depressione perché si vedono e si portano appresso troppe cose brutte, la sua fortuna è stata di avere avuto sempre come faro la sua famiglia. E come tutti quelli che hanno conosciuto da vicino i conflitti, era un accanito pacifista, un sentimento che aveva espresso magistralmente in “Lettere contro la guerra”. Non solo quelle al fronte, ma anche quelle più infide, come il terrorismo. Diceva, per esempio: “Non si tratta di giustificare, di condonare, ma di capire. Capire, perché io sono convinto che il problema del terrorismo non si risolverà uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali”. Una lezione non solo metropolitana, ma che dovrebbe valere anche per gli scontri universali.
Era un eremita perché a convivere con i mali del mondo, stando sempre in trincea, alla fine si resta soli. Lui esasperava tutto e si definiva addirittura Anam, il senzanome, secondo gli insegnamenti che aveva raccolto in quell’Asia che tanto amava. Semplicissimo nel narrare, era tagliato fuori dai premi letterari e se ne vantava. Oggi sarebbe infastidito da tante commemorazioni, ma soprattutto da una generazione di copia-incolla e da una professione che pretende aggiornamenti a tavolino. Forse sarebbe contento, così curioso, solo dell’idea di trarre un film da “Un indovino mi disse”, lo metterebbe nel cassetto dei ricordi insieme ai tanti accrediti e ai tantissimi passaporti, come fa ognuno di noi che ha assaggiato la strada.