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“Spread digitale”, cancelliamo il ritardo?

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Dieci milioni di € al giorno per finanziare il rilancio del Paese. Non sono bruscolini: sono oltre 3 miliardi e mezzo di moneta unica da investire ogni anno come meglio si crede. Ma a una condizione: l’Italia dovrebbe, prima di tutto, cancellare il ritardo che la coglie alle ultime posizioni in Europa nell’uso della moneta elettronica, nella razionalizzazione delle banche dati della PA, nell’e-commerce, e azzerare il disavanzo della bilancia dei pagamenti per i servizi informatici.
In fondo, basterebbe attestarsi sui livelli medi europei. E’ lo “spread digitale” che ci penalizza nella competizione internazionale. Almeno così l’ha chiamato il Censis, nel 7° numero del Diario della transizione presentato lo scorso 5 luglio, che ha l’obiettivo di individuare e analizzare i principali temi in agenda in un difficile anno di passaggio, attraverso la diffusione di una serie di note di approfondimento.

E a partire da martedì 8 luglio, il Governo ha dato appuntamento a Venezia, per riportare al centro del dibattito la necessità di favorire gli investimenti nell’innovazione digitale. E’ “Digital Venice Week”, l’iniziativa sulle politiche per il digitale promossa dalla Presidenza Italiana del Consiglio europeo: faccia a faccia serrato fino al 12 luglio fra politica e industria di tutta Europa, per tracciare la strada verso la crescita dell’economia e dell’occupazione, attraverso politiche di sviluppo dell’agenda digitale.

Chissà, sarà questa la volta buona? In fondo, per l’Europa si tratta di un impegno importante ma non impossibile: mediamente, quasi tutti i Paesi membri partono da buone posizioni in pole position. Ma l’Italia? Senza buone regole, senza infrastrutture adeguate, senza competenze specifiche e risorse umane specializzate, la transizione al digitale resterà soltanto sulla carta.

Perché tanto pessimismo? Perché il grado di confidenza degli italiani con le nuove tecnologie digitali non induce all’ottimismo. Appena il 58 per cento di noi di età compresa tra 16 e 74 anni utilizza Internet (contro il 90 per cento dei britannici, l’84 dei tedeschi, l’82 dei francesi: la media europea è del 75 per cento). Soltanto il 34 per cento di chi in Italia accede alla Rete si connette con la PA: il doppio in Francia, la media europea segna un buon 20 per cento in più. E poi, nel nostro Paese, c’è l’annoso buco nero della banda larga, dispensata come un originale gadget per privilegiati.

Un quadro desolante dove prevalgono le tinte scure. Vediamole con il Censis, per quanto possibile una a una:
• i laureati italiani in discipline scientifiche e tecnologiche con meno di 30 anni sono 13,2 ogni mille abitanti della stessa età, contro i 22,1 della Francia, i 19,8 del Regno Unito, i 16,2 della Germania (media europea è di 17,1)
• le imprese temono l’innovazione: le start-up languono, malgrado agevolazioni fiscali specifiche, oltre il 60 per cento delle aziende non ha nemmeno un sito Internet, la bilancia dei pagamenti import-export per servizi informatici è in perenne e pesante saldo negativo. D’altronde, appena il 5 per cento delle imprese è attivo nel commercio elettronico (media europea 14)
• i mezzi evoluti di pagamento – che fra l’altro in Italia potrebbero contribuire anche (ma forse proprio per questo) a contrastare l’evasione fiscale – sono ancora una chimera: le transazioni con carte di pagamento sono 28 per carta all’anno, contro le 167 del Regno Unito, le 129 della Francia e le 30 della Germania. Per quasi l’83 per cento di noi esiste soltanto il denaro contante (media europea del 66,6), vizietto (il maggior costo cioè rispetto alla media europea della gestione del denaro, confrontato con mezzi elettronici equivalenti) che paghiamo circa 450 milioni di € all’anno
• vetero Pubblica Amministrazione. Siamo al penultimo posto in Europa per uso dei servizi online: le e-mail spedite dai ministeri non raggiungono il 27 per cento degli oltre 500 milioni di messaggi complessivi in entrata e uscita. Aumenta il numero di caselle di posta elettronica certificata, ma cala il numero medio di messaggi per casella. Le firme digitali hanno superato i 5 milioni di certificati attivi, ma il largo pubblico non ne ha mai sentito parlare
• spese pubbliche pazze. Oltre il 40 per cento degli investimenti in Ict se ne va in manutenzione, mentre più della metà del valore dei nuovi contratti avviene con trattativa privata. Cala (- 37 per cento) la spesa dell’amministrazione centrale per le consulenze informatiche, quasi 94 milioni di € nel 2013, ma le stesse amministrazioni pubbliche centrali sono titolari di 1.520 banche dati diverse. Forse sono un po’ troppe: c’è chi sostiene che ne potrebbe bastare un centinaio, risparmiando circa 160 milioni di € all’anno. E, magari, migliorando anche la qualità dei servizi.


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