di Silvia Fumarola*
Lo raccontano gli amici, parlano di lui le immagini che ha girato e le foto familiari: un bambino bellissimo con gli occhi sorridenti, lo sguardo era rimasto identico da adulto. La moglie Patrizia Scremin confessa che ha conservato tutti i gadget collezionati dal marito. «Apro quel cassetto e sorrido». Doveva essere una persona speciale Miran Hrovatin, il cineoperatore ucciso il 20 marzo 1994 con l’inviata del Tg3 Ilaria Alpi a Mogadiscio. «Andiamo a raccontare i soldati italiani, finalmente un po’ di caldo» aveva rassicurato tutti. Il suo ultimo viaggio. Inizia con la tragica notizia della morte ma è pieno di vita, passione e curiosità per gli altri il documentario Saluti da Miran di Giampaolo Penco, prodotto da Videoest col Fondo per l’Audiovisivo FVG che sarà presentato oggi, martedì, a Trieste per il Premio Luchetta.
I nostri Angeli andrà in onda su RaiUno il 14 luglio. I genitori volevano che Miran diventasse ingegnere, ricordano i compagni di scuola: era l’unico sloveno della classe, amava la fotografia, la musica, gli piaceva viaggiare: «Ci siamo sposati e siamo stati un mese in Nepal» racconta la moglie «la sua vita era nel viaggio, la sua morte è stata in viaggio. Anche nostro figlio Ian viveva all’estero». Se l’uscita di Blow up segna la svolta, Miran, dopo che un autobus sfonda la vetrina del suo Fotostudio chiude bottega. Troverà nella cinepresa un’alleata. I ricordi di Niki Filipovic, Sergij Premru, Hector Sommerkamp, Gino D’Eliso, Sergio Ferrari, Mario Calligaris, Giampaolo Amstici, Sandi Renko si alternano alle immagini girate da Hrovatin in Bosnia, nel Sahara e in Somalia; filmava l’orrore e l’umanità, ci sono sempre donne e bambini. Accettare la morte è difficile, c’è chi continua a vederlo, sorridente, per le strade di Trieste. Sulle note della Ballata di Easy rider cantata da D’Eliso gli amici si avviano verso Piazza Unità, col cellulare in mano; il numero di Miran è irraggiungibile.
* Repubblica