di Nicola Grigion e Genni Fabrizio*
Gradisca d’Isonzo, 14 luglio 2014. Varchiamo i cancelli d’ingresso e ci dirigiamo verso la guardiola per i controlli di rito. Con noi ci sono diversi rappresentanti degli enti locali ed una troupe della RAI. E’ il giorno della visita al CIE. Perché dopo la sua chiusura, nel novembre 2013, nelle ultime settimane è trapelata la voce dell’inizio dei lavori di ristrutturazione, suffragata da un reportage di un giornale locale entrato nel centro pochi giorni fa. L’opera di ripristino è iniziata a giugno e i lavori dovrebbero finire a settembre. Si parla di una possibile riapertura già all’inizio del 2015. La notizia ha fatto infervorate più di un amministratore locale. Così ci sono tutti: il Consiglio Regionale, la Provincia di Gorizia, diverse amministrazioni comunali, oltre a Melting Pot e Tenda della Pace per la campagna LasciateCIEntrare.
Muoviamo i primi passi lungo il perimetro interno, costeggiando le spesse mura che in questi nove anni hanno separato a lungo la libertà dall’inferno. Oggi però dietro alle gabbie che vediamo all’orizzonte, fortunatamente, non incontreremo nessuno; ma il rischio che a breve qualche “ospite” possa tornare a vivere in quello spazio così umiliante e totalizzante, non ci lascia sereni. Ad accompagnarci nella “visita” sono i responsabili della ditta che si è assicurata l’appalto per i lavori, un affare da 800 mila euro solo per la prima tranche dell’opera. Con loro c’è la vice-prefetto vicario di Gorizia, Sandra Allegretto. Per lei il CIE è stato già fonte di non pochi problemi. L’inchiesta sulle fatture gonfiate dall’ente gestore, la Connecting People, le è costata già un rinvio a giudizio. Si dovrà difendere dall’accusa di falso. Cerca di avere un tono cordiale ma è evidentemente in imbarazzo quando si trova ad incassare con difficoltà le domande della delegazione. Tutto ruota intorno ad una audizione dello scorso 28 maggio alla Camera dei Deputati, quando il Ministro dell’Interno Alfano, interrogato dall’On. Brandolin sul CIE di Gradisca, aveva dichiarato che “la riapertura del centro e l’ipotesi di una sua possibile destinazione all’accoglienza dei richiedenti asilo erano oggetto di un’attenta riflessione da parte del Ministero dell’interno, che non mancherà di confrontarsi con gli organi di governo locale”. Per molti quelle parole erano suonate come la definitiva resa del Viminale alle contrarietà espresse dal territorio. Ma anche l’ipotesi di utilizzare l’area per l’allargamento del CARA è osteggiata dagli enti locali che prediligono, giustamente, un modello di accoglienza diffusa e decentrate per i richiedenti asilo. In ogni caso si tratta di una mera voce di corridoio. La sensazione è che ancora una volta, come in tutta la storia dell’ex caserma Polonio, una coltre di fumo avvolga la verità.
Certo, la vicinanza della Presidente della Regione FVG Serracchiani al Premier Renzi potrebbe far pensare che la decisione (sempre che non sia già stata presa) non sia poi così semplice. Dieci anni di CIE, con il carico di brutalità che ha consegnato ad una intera Regione, pesano come un macigno sugli equilibri politici di un territorio deciso a non demordere. Ma la sensazione è che il futuro del centro di via Udine sia stabilito altrove. Ed è forse per questo che l’aria che tira a Gradisca mette subito tutti in guardia. Non c’è aria di dismissione qui. Anzi, la struttura di Gradisca era e rimane un groviglio di gabbie e filo spinato e l’unica cosa certa sono le parole impacciate pronunciate dalla vice-prefetto Allegretto costretta ad ammettere che “i lavori sono per il ripristino della struttura così com’era, cioè un CIE …”. Si discute di capitolati di spesa e di appalti, di “possibili, eventuali, auspicabili, proponibili, paventati”, ulteriori lavori per convertire l’area alla funzione di CARA. Ma a guardarsi intorno questa ipotesi sembra piuttosto una via di fuga. Un modo per giustificare la ripresa dell’opera di ristrutturazione. I cantieri intanto vanno avanti e qualcuno, come sottolinea il Consigliere regionale Lauri, dovrebbe spiegare a cosa servono gli 800 mila euro di soldi pubblici stanziati per ricostruire il CIE se la decisione, veramente, ancora non è stata presa. Così nella discussione irrompono i responsabili della ditta che sta realizzando i lavori di ristrutturazione. “Gli interventi si concentrano sul ripristino degli spazi e non sui dispositivi di contenimento e sicurezza” – ci dicono. Ma appena giriamo l’angolo vediamo quattro operai intenti a ricucire le reti di copertura delle “gabbie”. Da quel momento sembrano proprio i responsabili della Easy Light a condurre la visita. Si tratta formalmente di un cantiere e la cosa potrebbe quasi passare inosservata. Ma la storia di quelle mura, le sue morti, le sue violenze, stonano non poco con il linguaggio tecnico di chi discute di impianti di aerazione e dispositivi anti-incendio.
Il perché di tanta “ingerenza” è probabilmente spiegato dalla lunga esperienza e familiarità con il luogo che vanta la ditta nel suo curriculum. La ristrutturazione, che procede divisa in più lotti, dura ormai dal 2011 (anno in cui le rivolte resero inagibili le zone blu e verde lasciando disponibili soli 74 posti su 248) e assomiglia ad uno di quegli appalti destinati a non finire mai visto che, una eventuale riapertura, significherebbe anche la ripresa delle rivolte che difficilmente le gabbie, le reti, gli impianti di aerazione e gli psicofarmaci, riusciranno comunque a sedare. Il momento più macabro e grottesco della visita è quello in cui ci viene consegnato un volantino che pubblicizza l’innovativo sistema della Easy Light chiamato “Unità Mobile”. Non si tratta di un nucleo operativo delle forze dell’ordine, ma di una macchina pulente che, si legge, “tratta con successo superfici gravemente danneggiate da incendio, senza aggredire i materiali architettonici che lo compongono, ridando loro nuova vita”. L’intero dépliant è fatto utilizzando le immagini delle stanze del CIE annerite dal fuoco. Poco importa che in quelle stanze le persone detenute abbiano sofferto e che la disperazione li abbia portati ad infliggersi ferite, intossicarsi di fumo o a perdere la vita come è successo ad Abdel Majid El Kodra.
L’immagine della stanza tirata a nuovo, con i suoi letti ben bullonati a terra, esalta le capacità dell’Unità Mobile “Approvata da numerose Sovrintendenze alle Belle Arti”. Un vanto per il CIE di Gradisca d’Isonzo: patrimonio dell’Umanità persa. Così basta una passata con l’Unità Mobile e tutto torna come prima, cancellando sentenze, rapporti sulle condizioni disumane, storie individuali comprese. Ma è sul secondo punto, quello in cui viene precisato che la struttura architettonica non sarà in alcun modo aggredita, che vale la pena concentrarsi. L’operazione di marketing della Easy Light richiama infatti un ben più importante documento redatto il 14 agosto 2013. Si tratta della relazione del responsabile Igiene e Sanità pubblica dell’Azienda Sanitaria locale in cui viene rilevato come vi sia “dal punto di vista strutturale, una grave carenza dei requisiti relativi al ricambio dell’aria” e unitamente ad altre criticità rilevate ritiene “che il Centro di Identificazione ed Espulsione di Gradisca d’Isonzo non possieda al momento i requisiti strutturali e funzionali per accogliere gli ospiti”. Il CIE di Gradisca insomma è strutturalmente inidoneo al suo utilizzo, cioè quello di “ospitare” delle persone. Una contraddizione di non poco conto ascoltando con quanta enfasi la funzionaria della Prefettura ha sottolineato come i lavori mirino a ripristinare la struttura proprio così com’era prima delle rivolte dell’estate 2013. Nell’area verde, quella bruciata già nel 2011, i lavori sono quasi completamente ultimati. Soffermarci sui bagni fatiscenti o sulle tinteggiature alle pareti, servirebbe solo ad introdurci nel viale della rassegnazione per cui sembra possibile pensare solo a migliorare le condizioni di detenzione e non invece a cancellarne i presupposti. Nell’area blu invece i lavori sono ancora in corso. Mentre le mense e le aree comuni, come dal 2011, sono tutt’ora inagibili. Negli ultimi due anni i migranti consumavano i pasti nelle celle e i pochi momenti d’ “aria” erano limitati al cortile avvolto dalle sbarre proprio fuori dalle stanze. Chiunque sarebbe impazzito in quei pochi metri quadri. Le autorità locali continuano intanto a rivolgere domande alla rappresentante della Prefettura che, via via, diventa sempre più restia a rispondere. Per lei è ora di andare. Così prega i partecipanti di far pervenire un documento con le rimostranze che verrà certamente inviato al Ministro.
Il 22 luglio invece sarà il momento di Linda Tomasinsig, Sindaco di Gradisca, toccherà a lei presentare al Comitato per l’applicazione degli Accordi di Schengen la posizione dei Comuni del territorio isontino che stanno deliberando in questi giorni numerosi, la loro contrarietà alla riapertura del CIE. La delegazione intanto conclude il suo giro sul retro del CIE, dietro agli stabili della cosiddetta area rossa. Lì, dove Majid si è lanciato dal tetto cercando di saltare fuori dalla recinzione ed invece ha trovato la morte dopo otto mesi di coma, lo scorso 30 aprile. Per far luce su quanto accaduto in quella notte del 12 agosto 2013 è stato presentato un esposto da moltissimi associazioni e rappresentanti istituzionali. Noi invece, dopo quasi un’ora e mezza di gabbie e reti, da quel recinto possiamo uscire per digerire a fatica novanta minuti di ipocrisie e frustrazioni e tanta voglia di impugnare gli attrezzi e smontare bullone dopo bullone, mattone dopo mattone, ogni centimetro di questo monumento alle brutalità del ventunesimo secolo. Ma per questo c’è ancora tempo.