Per capire cosa è successo in via D’Amelio il 19 luglio del 1992, da qualche anno a questa parte la famiglia di Eddie Cosina, uno degli angeli custodi di Paolo Borsellino, insieme a Libera e al SIULP si ritrova a Muggia, piccolo paese alle porte di Trieste. Da qui più di ventidue anni fa l’agente della polizia di Stato partì per andare incontro al suo tragico destino. Per capire cosa è successo in quella torrida estate palermitana, occorre prendere atto che non sono bastati ben quattordici processi, comprensivi di quattro pronunce della Corte di Cassazione e che oggi si sta celebrando, nel silenzio dei media e nella ignoranza della pubblica opinione, un nuovo processo, il “Borsellino quater”. Per capire cosa è successo, quest’anno Libera e il SIULP, insieme alla famiglia Cosina ha scelto di stare “dalla parte sbagliata”. “Dalla parte sbagliata” è l’indicazione di una nuova prospettiva per capire cosa è successo, ma è anche il titolo del bel libro scritto dall’inviata di Servizio Pubblico, Dina Lauricella e dall’avvocato Rosalba Di Gregorio, che nel corso della sua lunga carriera ha difeso boss quali Provenzano, Greco e Mangano. Un libro scomodo ma che serve a quanti volessero, senza pregiudizi, accostarsi ad uno dei misteri più intricati della Repubblica italiana. Sono passati ventidue anni e oggi siamo costretti a rivedere le nostre convinzioni, stratificatesi nella memoria collettiva di un Paese troppo spesso fatta oggetto di disinformazione e depistaggi. Accanto alle autrici interviene nel corso della serata il magistrato Alfonso Sabella, oggi al Ministero di Giustizia, ma un tempo autore dei più clamorosi arresti ai danni di Cosa nostra, un cacciatore di latitanti come pochi se ne sono visti nella storia giudiziaria del nostro Paese. Il dialogo tra i tre è serrato e soltanto filtrato dalle domande del moderatore. Ad aprire la serata l’intervento di educatori e ragazzi in carico all’Ufficio Servizio Sociale Minorenni del Dipartimento della Giustizia Minorile che presentano un filmato dedicato ad Eddie e alla sua famiglia.
Il falso pentito
Il dibattito prende avvio dalla copertina del libro di Lauricella e Di Gregorio: vi è riprodotta una foto di via D’Amelio scattata all’alba, all’indomani di quella terribile domenica di luglio e finita a far bella mostra di sé nello studio dell’avvocato Di Gregorio. Da quella foto nasce la collaborazione con Dina Lauricella, incuriosita ma anche infastidita del fatto che uno dei legali più famosi di Palermo, conosciuto essere difensore di boss e gregari, potesse conservare nel suo studio quell’immagine che evocava il sacrificio di uno dei nemici più acerrimi di Cosa Nostra. In quella foto, risalente alle prime ore del 20 luglio del 1992, accanto ad una delle auto blindate della scorta di Borsellino, dovrebbe vedersi il blocco motore della 126 indicata fin dai primi lanci ANSA come l’autobomba fatta esplodere in via D’Amelio. E invece nella foto il blocco motore non c’è, verrà ritrovato ufficialmente all’ora di pranzo dello stesso 20 luglio, mentre la targa sarà rinvenuta solo il 22 luglio. Da queste prime anomalie, dal tentativo di capire questa contraddizione nel rinvenimento di un particolare così importante e ingombrante quali il blocco motore dell’auto, ritenuta fin da subito il veicolo utilizzato dagli stragisti, parte uno dei più colossali depistaggi della storia recente d’Italia ma parte anche il viaggio della giornalista e dell’avvocato alla ricerca di quello che è successo in questi ventidue anni. Attorno alle false accuse montate da due balordi sul furto dell’auto in questione, all’indomani della strage, si arriva ad individuare in Vincenzo Scarantino uno dei responsabili dell’attentato al giudice Borsellino. Scarantino è un personaggio di infimo valore nell’organigramma criminale della Guadagna, eppure viene fatto assurgere a “nuovo Buscetta”, costruendo attorno a questo personaggio le accuse più incredibili ai danni della famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù e sviando le indagini dai veri responsabili dell’attentato, la famiglia di Brancaccio retta dai fratelli Graviano, stando alle ricostruzioni più recenti riferite dal collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza e ritenute attendibili tanto da portare verso una clamorosa revisione. Nonostante Scarantino ritratti più volte nel corso degli anni, denunciando le minacce subite e le false ricostruzioni attribuite, i vari tronconi processuali si chiudono con la condanna anche di alcuni innocenti, oggi ritenuti incarcerati ingiustamente per lunghi anni.
Il depistaggio
L’avvocato Di Gregorio racconta anche l’esperienza di Pianosa, una delle isole dove fu inizialmente applicato ad alcuni soggetti il regime dell’articolo 41 bis, per arrivare a spiegare il trattamento subito anche da Scarantino, portato a sostenere false accuse dall’attività di “indottrinamento” subito ad opera di un gruppo di funzionari della PS, facenti parte del gruppo investigativo “Falcone-Borsellino” guidato da Arnaldo La Barbera. Oggi che La Barbera è morto, i suoi collaboratori sono indagati nella speranza di venire a capo dell’intricata vicenda. Dina Lauricella racconta dell’intervista fatta a Scarantino per “Servizio Pubblico” e confluita anche nel libro: “Per guardare in faccia la verità dobbiamo stare dalla parte sbagliata, il libro è solo l’inizio di un percorso, di un racconto che mi auguro possa portarci a capire la verità”. Mentre i tre parlano e il folto pubblico assiste in silenzio, compresi questore e sindaco s’avvicina minacciosamente un temporale. Giusto il tempo di trovare rifugio dentro al vicino teatro comunale perché il dibattito riprenda. Nessuno se ne va, tutti restano fino al termine della serata e verranno a complimentarsi in tanti alla fine: “Abbiamo capito qualcosa in più, ma è terribile questa storia che ci raccontate”. E ancora: “Nessuno ne parla sui giornali o in televisione”. Sabella rivendica il diritto per la famiglia Cosina di avere finalmente una verità dopo tanto tempo e lancia una provocazione: “Non dovremmo più parlare di trattativa tra mafia e pezzi dello Stato, ma tra Stato e pezzi della mafia. Se quello che sta emergendo in questi anni dovesse reggere al vaglio dibattimentale lo Stato dovrebbe chiedere scusa alle famiglie delle vittime e agli italiani tutti”. C’è ancora del tempo perché l’avvocato Di Gregorio racconti il combattuto iter processuale, compresa la mancata acquisizione dei verbali dei confronti tra Scarantino e altri collaboratori o l’anomalia di un colloquio investigativo durato a Pianosa ben dieci giorni, dieci giorni che sarebbero serviti a far “studiare” la versione di comodo a Scarantino. I suoi clienti sono sei persone accusate ingiustamente da Scarantino e che per questo si sono fatti ben diciasette anni di carcere. Vite distrutte che vanno ad aggiungersi al grave bilancio della strage di via D’Amelio. Lauricella invece sottolinea il ruolo negativo dell’informazione nella vicenda processuale della strage di via D’Amelio, perché i giornalisti hanno preferito accontentarsi di una visione di comodo, di una rigida distinzione tra buoni e cattivi. Sabella si chiede infine anche cosa abbia provocato l’accelerazione della strage di via D’Amelio, in ragione del fatto che Cosa Nostra ne avrebbe poi patito le conseguenze con il recepimento in via definitiva, e non per decreto legge, del “carcere duro”. Rosalba Di Gregorio chiude con una provocazione: “A volte ho l’impressione che il processo sulla trattativa sia stato fatto per distogliere l’attenzione da via d’Amelio, ma se non si raggiunge la verità su questa strage, anche il processo sulla trattativa è destinato al fallimento”.
Servitori dello Stato? No, omertosi
Si potrebbe andare avanti ancora per ore, visto l’interesse dei presenti, ma meglio chiudere con la lettura di un documento prezioso, la lettera di Salvatore Borsellino al capo della Polizia Alessandro Pansa, scritta all’indomani delle imbarazzanti deposizioni di alcuni funzionari nel processo in corso. Rileggiamo un estratto di questa lettera che si trova nel libro e che pubblichiamo in allegato, per non dimenticare. Borsellino ricorda l’estrema gratitudine della sua famiglia per i poliziotti, alcuni dei quali morti per proteggere il giudice in via D’Amelio, ma si dice anche colpito dal rifiuto apposto alla verità da alcuni di loro a Caltanissetta: “Vedendo un poliziotto in divisa, non riuscirò più a far dissolvere dalla mia mente l’immagine e la voce di altri due uomini, anche loro appartenenti alla Polizia di Stato, quello Stato a cui anche loro hanno prestato giuramento, che, nell’aula bunker del tribunale di Caltanissetta, dove si svolge il processo cosiddetto Borsellino Quater, dove sono comparsi in veste di testimoni, hanno taciuto, si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Vincenzo Ricciardi, già questore di Bergamo e attualmente in pensione, e Mario Bo’, dirigente della Divisione Anticrimine della questura di Gorizia, insieme ad un terzo poliziotto, Salvatore La Barbera, dirigente della Criminalpol di Roma, che non si è presentato, sono indagati dalla Procura di Caltanissetta perché sospettati di avere depistato le indagini sulla strage di via D’Amelio… Ma avvalersi della facoltà di non rispondere è molto peggio che non ricordare, avvalere, come testimoni, della facoltà concessa agli imputati di reato connesso, e si tratta di poliziotti, significa, per quelli che dovrebbero essere dei servitori dello Stato, mettere deliberatamente degli ostacoli sulla strada della Verità e della Giustiza. Significa continuare ad essere corresponsabili di uno dei peggiori depistaggi della storia d’Italia, che pure di stragi di Stato e di successivi depistaggi, letteralmente trasuda. Significa, ed è davvero intollerabile proprio perché di servitori dello Stato si tratta, mostrarsi più omertosi dei mafiosi”. La serata si chiude così, con l’appuntamento al prossimo anno con la famiglia Cosina, nella speranza che nel frattempo la strada verso la verità si riempia di nuovi passi in avanti, passi fatti anche con il coraggio di stare “dalla parte sbagliata”.