Scriveva McLuhan che “In una cultura abituata da secoli a frazionare ogni cosa al fine di controllarla, può essere sconcertante scoprire che il mezzo è il messaggio”. Così nel famoso testo “Gli strumenti del comunicare” (1967). Ecco, pare sfuggire a diversi autorevoli interlocutori, ivi compreso il sindaco di Roma, che il teatro Valle è un messaggio. E sì, perché nel sottovuoto spinto dell’era dei tagli inferti da Tremonti e sotto l’egida del pensiero unico berlusconiano, l’esperienza dell’antica sala del centro della Capitale apparve pressoché una boccata d’ossigeno. Tuttavia, qui si intende raccogliere il valore simbolico e profondamente politico proprio del messaggio che viene dal Valle, talmente forte dall’essere un potenziale criterio generale. Infatti, l’esperienza della Fondazione Teatro Valle Bene Comune, costruita attraverso il paziente lavoro di fior di giuristi –da Rodotà, a Mattei, a Maddalena- rappresenta un tertium genus: tra pubblico e privato o, meglio, oltre la classica polarità dialettica del secolo breve. Il pubblico inteso come mero intervento dello stato; il privato come egoistica tutela della proprietà. La crisi finanziaria e fiscale ha reso sempre meno immaginabile un generico ricorso alle casse dell’erario, mentre il rovesciamento della morale weberiana ha ridotto a mera eccezione il generoso mecenatismo cui guardano con disarmante ingenuità i liberisti in buona fede. Di qui, l’urgenza di ridare contenuti e significato alla semantica del “pubblico”, che oggi difficilmente potrebbe rimettere tout court i panni gloriosi delle suggestioni di Giorgio Strehler e di Paolo Grassi. Intendiamoci. Il ruolo pubblico nell’universo delle culture è se mai ancor più importante oggi, dentro i conflitti della società dell’informazione e della conoscenza, in cui la povertà diventa digitale. Proprio per dare vigore ad una linea contraria alle privatizzazioni, è necessario allargare il territorio “pubblico”, ri-costruendone i nuovi confini mediante il concetto di bene comune. Come l’aria, come l’acqua, anche il patrimonio culturale attiene ai principali diritti di cittadinanza, previsti dalla Costituzione.
Vale la pena, tornando al Valle, di ricordare il contesto in cui ebbe inizio la vicenda. Quel 14 giugno del 2011. Il teatro era parte dell’ente teatrale italiano, sciolto d’imperio da un decreto governativo cui si cercò disperatamente di opporsi, purtroppo senza successo. Il Valle, pur legato al ministero delle attività culturali e al comune di Roma (cui per competenza era transitato), in verità era rimasto a lungo vacante. Con i rischi connessi. L’”occupazione” –senza enfasi o santificazioni- non per caso è stata accolta con rispetto e interesse per tre anni, per il suo spirito paradossalmente legalitario, essendo vocata alla salvaguardia di una sala straordinaria a rischio di oblio. I fini dicitori storceranno il naso in nome della dura lex, cui peraltro –e non a caso, probabilmente- non se l’erano sentita di ricorrere. Nel frattempo il Valle è diventato un riferimento, raccogliendo l’adesione attorno al progetto della Fondazione di una eccezionale platea artistica e intellettuale. Pagine importanti cancellate all’improvviso? Suvvia. Serve una intelligente transizione, con reciproco riconoscimento tra gli interlocutori, evitando tra l’altro un bando internazionale per la gestione, che significherebbe azzerare un’esperienza creativa e privatizzare il Valle. No. Quella dei beni comuni è un’ idea di futuro.
Fonte: Il Manifesto – 9 luglio 2014