Quando sono scesi al molo Favaloro non sapevano dove fossero. 350 eritrei hanno attraversato il mediterraneo su un peschereccio blu in buone condizioni. Sembrava nuovo a Barbara Molinario che era li ad accoglierli per conto di Unhcr. Lei gli ha risposto: siete a Lampedusa. Loro hanno capito e hanno detto: “ah, Lampedusa, dove sono morti quelli del tre ottobre”. Hanno detto così con grande naturalezza e con un’aria che somiglia alla rassegnazione, nascosta sotto ai vestiti sporchi di sale.
Erano arrivati fino li, dove sono morti i 368 del 3 ottobre, morti tra i quali avevano dei parenti, degli amici. Sapevano bene cosa fosse successo e non hanno potuto fare altro se non seguire lo stesso percorso e correre gli stessi rischi.
Sono arrivati a lampedusa nel giorno in cui nel mediterraneo ci sono altre decine di barche cariche di gente in fuga da guerra, dittatura, persecuzione. Sono arrivati vivi nel giorno in cui dal mediterraneo rimbalzano notizie di nuove stragi: un naufragio poco lontano dalle coste della Libia che conta circa quaranta dispersi, e altri diciotto morti asfissiati, trovati nella stiva di un altro barcone, soffocati dalle esalazioni di monossido di carbonio. “Queste sono notizie certe, ma ci hanno raccontato anche di un barcone con 250 persone a bordo, partito dalla Libia insieme ad altri e mai arrivato”, dice Barbara Molinario e il conto che sta tenendo l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite ormai ha raggiunto i mille morti nel mediterraneo dall’inizio dell’anno.
Era già successo e aveva fatto paura, ora continua a ripetersi nelle stesse modalità tragiche e rischia di diventare normalità.
Sembra che nulla possa fermarla questa strage. Mare nostrum ha salvato migliaia di vite, ma certamente non basta e nulla sembra essere più necessario ed urgente dell’apertura di corridoi umanitari.
A Lampedusa sono arrivati in 1300, il più giovane è un bambino di soli 35 giorni. Ospiti temporanei del centro di accoglienza ufficialmente ancora chiuso. Altre migliaia sono in arrivo nei porti siciliani. Seduto su una sedia sistemata all’ombra, c’è un signore vestito con un completo blu sporco del sale del mare. È siriano, ha la pelle chiara e sul viso le ustioni del sole che non gli ha dato tregua durante la traversata. È stremato come tutti gli altri da un viaggio lungo, difficile e pericoloso. Quando viene il suo turno estrae dalla tasca il suo passaporto. Lo fanno tutti i siriani in fila per l’identificazione. Barbara li guarda e le viene in mente il check in di un aeroporto.
È una immagine surreale, ma che potrebbe diventare facilmente realtà se l’Europa ripensasse alla gestione delle sue frontiere, ad un accesso diverso al continente per chi scappa da guerra e dittatura e affronta una morte probabile per sfuggire ad una morte certa.
Potrebbero veramente partire in un altro modo e il Mediterraneo potrebbe smettere di essere una tomba.
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