C’è una leggenda metropolitana che sta diffondendo, a dispetto della realtà. La leggenda è che la legge sull’equo compenso per i giornalisti lavoratori autonomi sia stata scritta con i piedi, e dunque sia inapplicabile. E che le valutazioni negative sui suoi recenti esiti siano perciò da attribuire al pessimo lavoro del legislatore, ad aspettative eccessive degli autonomi, e alla demagogia sparsa a piene mani sul tema.
Ma le cose non stanno affatto così. Infatti la legge 233/2012 già all’articolo 1 stabilisce un principio di chiarezza solare: l’equo compenso va riconosciuto a tutti i giornalisti senza contratto di lavoro subordinato, e ciò in attuazione dell’articolo 36 della Costituzione[1], e in “coerenza con i trattamenti previsti dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria”. Non serve pertanto un particolare sforzo esegetico per capire a chi va applicata la legge e quali debbano essere i parametri retributivi[2]. Non si capisce pertanto quali possano essere i supposti problemi di interpretazione ed applicazione.
Altra eccezione, più volte sollevata, è la presunta violazione dell’eguaglianza dei diritti, dato che la legge 233 si rivolge solo al lavoro giornalistico. Ma in realtà è assodato che una legge speciale può derogare alla legge generale con eccezioni positive (trattamento di miglior favore) o negative (come l’esclusione degli iscritti agli Ordini professionali dalle disposizioni della legge “Fornero” 92/2012[3]). Quindi si è nel pieno della regolarità legislativa.
Peraltro, richiamandosi alla valenza erga omnes dei contratti collettivi di lavoro (ai sensi dell’art. 39 comma 3 della Costituzione[4]), basterebbe varare una norma che estende a tutti i lavoratori non subordinati, di tutti i settori, il diritto a un compenso parametrato ai rispettivi contratti collettivi di lavoro. Che è proprio quanto vanno proponendo da un anno a questa parte dei parlamentari del Pd (Gribaudo, Paris, Madia, Gnecchi, Gregori) in Commissione lavoro alla Camera. E’ l’unico criterio che, proporzionalmente, può portare al rispetto del più elementare criterio di eguaglianza fra persone, fra cittadini, fra lavoratori: parità di compenso a parità di lavoro. Un principio che per il sindacato, per tutti i sindacati, dovrebbe essere una storica bandiera.
Altra leggenda metropolitana è che le sanzioni agli editori previste dalla legge 233 riguarderebbero solo “la decadenza del contributo pubblico a favore dell’editoria”, e che questo va oramai solo a una percentuale irrisoria di editori. Fermo restando che la richiesta di tutte le parti, compresa l’Fnsi, è quella del rifinanziamento di tali contributi, da estendere quindi a una platea più ampia, la legge stabilisce però un’altra sanzione: la decadenza “da eventuali altri benefici pubblici”. E anche su questa definizione non c’è necessità di grande esegesi, atteso che è volutamente ampia, e come tale omnicomprensiva di qualsiasi forma di aiuto o agevolazione pubblica[5] Il che estende di molto il bacino delle possibili sanzioni.
C’è poi chi sostiene che non ci si può appigliare come sanzione agli “altri benefici pubblici”, perché questi comprendono anche interventi a sostegno dei lavoratori, come gli ammortizzatori sociali, e quindi questo passaggio non va applicato. Va invece detto che la legge 233 ha lo scopo di spingere le aziende al rispetto dell’equo compenso, e quindi la ratio delle sanzioni è che queste vadano sì applicate, ma agli editori, e non certo a danno di incolpevoli giornalisti e lavoratori. Va quindi posta una distinzione nell’applicazione delle sanzioni, e non ignorata tout court questa possibilità di sanzione, espressamente prevista.
Alla luce di questi ragionamenti, l’equo compenso da riconoscere (“in coerenza con i trattamenti previsti dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria…”, come da art. 1 della legge) andava rapportato al tempo necessario per svolgere un lavoro, e retribuito in diretta proporzione allo stipendio di un contrattualizzato. In pratica: per le aziende che applicano il contratto Fnsi-Fieg era da riferirsi a quei parametri contrattuali, e analogamente agli altri contratti collettivi applicati (AerantiCorallo, Uspi). Ed era proprio questa la proposta della Commissione nazionale lavoro autonomo Fnsi, presentata al tavolo dell’equo compenso ma osteggiata e non sostenuta, perchè ritenuta suppostamente “troppo onerosa”, benché rispondente al dettato e allo spirito della legge 233. Così, dal piano di applicazione e rispetto della legge, si è passati a quello di una sua arbitraria interpretazione, pesantemente restrittiva.
Anche per questi motivi il contratto collettivo nazionale, soprattutto nella parte normativa, dovrebbe tenere unito un lavoro che si è sempre più frammentato. E nella proposta di nuovo contratto giornalistico c’è sì un piccolo germe di contrattazione inclusiva. Ma assolutamente inadeguato, proprio perché non mette un argine alle spinte degli editori alla precarizzazione strutturale del lavoro. E le soluzioni adottate per l’equo compenso influiscono in maniera importante su questa dinamica. Queste infatti hanno legittimato delle basse retribuzioni, inferiori non solo ai parametri dei contrattualizzati, ma anche a quelle dei collaboratori fissi ex art. 2 e 12 del contratto Fieg-Fnsi, andando così a minare l’utilità di possibili assunzioni, per il fatto che i collaboratori esterni costano molto meno. E i collaboratori solitamente hanno, per l’estrema debolezza della loro posizione e la ricattabilità economica, uno scarissimo potere di contrattazione individuale.
Per questo non è possibile essere soddisfatti dell’ipotesi di nuovo contratto. E pensare che comitati di redazione e ispettori del lavoro Inpgi possano, come per incanto, intervenire con la necessaria efficacia laddove finora non è stata attuata o possibile, o lasciare tutto sulle spalle della parte più debole, cioè il collaboratore “che dovrebbe far causa in tribunale”, sapendo però che così perderà per anni il lavoro, è un più auspicio molto ottimistico che una previsione realistica.
La realtà è che il nuovo contratto non ferma affatto la deriva del lavoro precario e sottopagato. E per questo non possiamo condividere l’idea di chi sostiene che questo è il primo di una serie di passi verso il riconoscimento dei diritti di lavoratori oggi relegati nella terza classe del giornalismo.
Infine, considerazione piuttosto banale, ma ineludibile, non abbiamo davanti a noi anni di tempo per attendere gli esiti di questo virtuoso percorso: le bollette e i costi della vita li dobbiamo pagare oggi. Ed abbiamo oggi bisogno di risposte molto concrete. Che qui non vediamo.
Maurizio Bekar – coordinatore della Commissione nazionale lavoro autonomo, consigliere nazionale Fnsi
Giovanni Ruotolo – Commissione nazionale lavoro autonomo Fnsi
Susanna Bonfanti – Commissione nazionale lavoro autonomo Fnsi
Moira Di Mario – Commissione nazionale lavoro autonomo Fnsi
Dario Fidora – Commissione nazionale lavoro autonomo Fnsi, responsabile Commissione Lavoro Autonomo Assostampa Sicilia
Francesca Marruco – Commissione nazionale lavoro autonomo Fnsi, direttivo Assostampa Umbria
Saverio Paffumi – Commissione nazionale lavoro autonomo Fnsi, responsabile Commissione lavoro autonomo Associazione Lombarda dei Giornalisti
Leonardo Testai – coordinatore Commissione Informazione Precaria Assostampa Toscana
[1] Articolo 36 Costituzione: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi».
[2] Preleggi del Codice Civile: «Art. 12 Interpretazione della legge. Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore. Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato».
[3] Si veda p.es. questa formulazione: Art. 1 comma 28 della legge “Fornero” 27. «La disposizione concernente le professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione in albi professionali, di cui al primo periodo del comma 3 dell’articolo 61 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, si interpreta nel senso che l’esclusione dal campo di applicazione del capo I del titolo VII del medesimo decreto riguarda le sole collaborazioni coordinate e continuative il cui contenuto concreto sia riconducibile alle attività professionali intellettuali per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali. In caso contrario, l’iscrizione del collaboratore ad albi professionali non è circostanza idonea di per sé a determinare l’esclusione dal campo di applicazione del suddetto capo I del titolo VII».
[4] Art. 39 Costituzione, comma 3: «I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce».
[5] L 233/2012: «Art. 3. Accesso ai contributi in favore dell’editoria 1. A decorrere dal 1º gennaio 2013 la mancata iscrizione nell’elenco di cui all’articolo 2 per un periodo superiore a sei mesi comporta la decadenza dal contributo pubblico in favore dell’editoria, nonché da eventuali altri benefici pubblici, fino alla successiva iscrizione».