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Bonacelli, “malato” suo malgrado

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Una  sapida edizione del capolavoro di Molière  ha completato  la stagione del Teatro Eliseo di Roma

“ L’umanità…a un uomo che è bambino cosa dà?”- si chiedeva, cuore in mano e anni or sono, un cantautore neo melodico a Sanremo (tal Ciro Sebastianelli da Pomezia), in un brano niente affatto  banale.  Più o meno la stesso interrogativo che,  disagiato e sbigottito, sembra oggi sortire dalla superba, artatamente vezzosa  interpretazione che Paolo Bonacelli,  esterna al pubblico del Teatro Eliseo, sfiorando tutte le note dell’auto ironico infantilismo senile,senza mai scadere nel gigionismo e nell’ ammiccamento al pubblico. Per un “Malato immaginario” (scusate il ritardo…) che giunge  compimento della stagione del Teatro Eliseo:   di tutto rispetto (e prestigio) che, proprio sotto l’architrave di Molière era stata inaugurata da un altrettanto vigoroso e burbanzoso “L’avaro”, affilato di  mefistofeliche sfumature da un Lello Arena sempre più in crescita e padrone dei propri mezzi espressivi: multipli, tragici, grotteschi.

Ma torniamo a Bonacelli e allo spettacolo che  sobriamente, e con  felpata simmetria di satira e ‘moralità’  (elementi fondanti del teatro di Molière)  gli ‘ritaglia addosso’ Marco Bernardi alla guida, come da consuetudine, di  un collaudato, cesellato team di attori che hanno fatto la storia dello Stabile di Bolzano, con Patrizia Milani e Carlo Simoni, reiterati comprimari di alto rango e maestri  di quella particolare arte del recitativo che è la difficile polarizzazione della ‘controscena’.       “Malato immaginario”  che ha, innanzi tutto, il non diffuso  pregio di potersi offrire ad una doppia lettura: quella schiettamente ‘sentimentale’ cui accennavamo prima ,  ove  Argante è davvero un ‘gigante bambinone’ capriccioso, lagnoso,  insofferente che… ‘nessuno se lo fila’ se non per derisione o tornaconto.

Oppure  dischiudersi (lo stesso spettacolo, lo stesso canone  scenico) a più arrovellate divagazioni   caratterial\esistenziali, assecondanti un sorta di topos artistico- letterario che viaggia tra l’ipocondria maniacale (quindi freudiana) e la cognizione di ‘uomo malato’, di ‘malattia del vivere’ che tanto distillavano le  strepitose pagine di Italo Svevo, e che –parimenti- avevano intrigato il suo conterraneo (e dimenticato commediografo)  Silvio Benco, a sua volta cultore del Thomas Mann  de “La montagna incantata” e di tanto ‘ansimar crepuscolare’ che la cultura del tardo ottocento aveva ritagliato dalle pieghe del romanticismo e dei mille cuori infranti che spaziano da Jacopo Ortis al sospiroso  Giuseppe Giacosa.

Decidendo  quindi, e in piena libertà, se assecondare l’una o l’altra delle allegorie (quella sentimentale, quella più introspettiva e rabbuiata), tocca allo spettatore se adagiarsi sulla  ‘lettura’ discreta, sottile, di buon trattenimenti,  ma probabilmente blanda e  anodina che l’allestimento  dipana (fluidissimo) sull’anziano personaggio di Argante, sin da quando  la luce sale lentamente sul  ‘fissato indaffarato’  mentre è  intento a redigere quel dilaniante calepino  delle  spese mediche, somministrate da  sanguisughe e altezzosi cerusici.

Il palcoscenico appare quasi spoglio su  anonimi ed elementari  oggetti e  strutture sceniche (di seicentesca sobrietà, come anche i costumi). Ma con un elemento iconografico (derivante dalla commedia dell’arte e dalla memoria del “Campiello” di Strehler) che ha la forma di un largo velario rettangolare, sul fondo scena,  dietro il quale si muovono, e progressivamente si rivelano  “le maschere della vita e della morte che si appropriano del palcoscenico come fantasmi della mente, luoghi onirici e di confine tra spirito e corpo”  Quasi che  l’ironia della sorte volesse dileggiare   Argante sia a viso aperto, sia nelle segrete stanze di un inconscio personale e di gruppo (quello che lo vezzeggia e deride).  E come se  un elemento  basilare della vicenda umana di Molière facesse capolino,sarcastico e leggiadramente minaccioso, tra le pieghe di un testo che lo stesso autore fu l’ultimo a rappresentare, “capace di morirne, in quel ruolo, la sera del 17 febbraio 1673”.

Dunque, se  mai personaggio “ fu più verosimile”, e mai “barriera tra realtà e rappresentazione”  labile e infranta come allora,  ne scaturisce –ci è parso- come la necessità di decantare, alleggerire, umanamente alleviare (sino alla canzonatura non feroce ma inappellabile) una filologia del testo originale che (apprendo dalle note di regia) Marco Bernardi si prefigge di  onorare alla stregua di  una sacralità drammaturgica “che  sfiora la tastiera degli effetti come un organista in chiesa, quando ad ogni nota corrisponde un intreccio, uno sviluppo ritmico-drammatico” operante come un  ‘affresco in  movimento ’, che ambisce (a ciascun la sua) alla catarsi d’ogni mania piccolo borghese, liddove l’ossessione del salutismo ad ogni costo non può che dissimulare un pessimo, codardo rapporto con l’avvento della morte, a naturale compimento di qualsiasi avventura terrena, meschina o esaltante che sia stata (forse in attesa che ‘qualcuno’ inventi la  ‘moviola a ritroso’  a panacea correttiva).

Pertanto,   la borghesia bastonata  da Molière nasce e fiorisce come la (contemporanea) “Classe morta” di Kantor,  mentre  l’inanità e l’egocentrismo dei suoi campioni \ modello non vanno al di là dell’ossessione danarosa, della giovinezza che sfiorisce in acciacchi ‘incurabili’, mentre  il corpo si deforma e decompone con crudele ‘positivismo’ refrattario agli elisir dei ciarlatani. Nevrosi e   disagio, secondo Molière,  non sono dunque  insiti  alla natura umana ma a chi ne fraintende le potenzialità di prestazione, a chi la immagina come una dinamo che si rigenera nell’esagitazione di se stessa. Semmai –e se proprio si vuol insistere sul concetto di malattia- meglio guardarsi attorno (sembrano suggerire Bernardi e Bonacelli) e inventariare tutto quel roseto di affetti filiali e terreni  che il terrore di non sopravvivere a se stessi rende l’ ‘animale borghese’ (civilmente,politicamente, antropologicamente) la creatura più predisposta a sbarazzarsi  di se stesso nell’intento di preservarsi  all’appuntamento cui nessuno è mai ‘tardato’.

Paradosso (tragico) travestito da commedia (in costume).

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“Il malato immaginario”    di Molière – Traduzione Angelo Dallagiacoma

Regia Marco Bernardi. Con Paolo Bonacelli, Patrizia Milani, Carlo Simoni, Gaia Insenga, Fabrizio Martorelli, Massimo Nicolini, Maurizio Ranieri, Giovanna Rossi, Libero Sansavini, Roberto Tesconi, Riccardo Zini- Scene di Gisbert Jaekel, Costumi Roberto Banci, Luci Giovancosimo De Vittorio  Prod. Teatro Stabile di Bolzano- Al  Teatro Eliseo di Roma


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