Da quasi 120 anni, sull’angolo in alto a sinistra della prima pagina del “New York Times”, quotidiano liberal per eccellenza, si stampa un motto: “All the News That’s Fit to Print”, un motto coniato dal fondatore e direttore Adolph S. Ochs, e che il professor Joseph W. Campbell dell’American University di Washington ha definito “le sette parole più famose del giornalismo americano”. Quel motto, che possiamo tradurre in “Tutte le notizie che vale la pena stampare”, comparve per la prima volta nella pagina degli editoriali il 25 ottobre 1896. Nel febbraio del 1897 venne spostato nella prima pagina, da allora lì è rimasto.
L’altro giorno la direzione del “New York Times” ha deciso, dopo aver debitamente interpellato il Comitato di Redazione che ha approvato l’iniziativa, che valeva la pena di pubblicare un editoriale in cui ci si pronuncia nettamente contro il proibizionismo per quel che riguarda hashish e marijuana, e a favore della loro legalizzazione. Non c’è dubbio che si tratta di una notizia. Le argomentazioni addotte sono molto simili a quelle del premio Nobel per l’economia (di simpatie repubblicane) Milton Friedman, che nel 2005 è stato il primo firmatario di un appello, poi sottoscritto da oltre 500 economisti statunitensi, che denunciava gli enormi costi, quasi otto miliardi di dollari l’anno, del proibizionismo sulla sola marijuana. In quell’appello si sosteneva che il proibizionismo era un sussidio virtuale del governo al crimine organizzato. Del resto più di vent’anni fa il settimanale “Economist” proponeva la via della legalizzazione come la “meno peggiore” delle soluzioni. La legalizzazione, argomentava l’ “Economist”, non solo eliminerebbe la criminalità ma trasformerebbe le droghe da un problema di legge e ordine in un problema di salute pubblica, come dovrebbe essere. Diversi tipi di droga avrebbero diverse tassazioni e regolamentazioni, e non è vero che aumenterebbero i consumi.
Tutto ciò non significa che si debbano necessariamente condividere le opinioni e le tesi degli anti-proibizionisti. Piuttosto che oltrepassata la frontiera di Chiasso o di Mentone, della questione si discute, ci si confronta, si ragiona, non si è prigionieri di una sterile e stolida ideologia, ma con pragmatico empirismo si cercano soluzioni ragionevoli e percorribili.
Quasi in contemporanea con la pubblicazione dell’editoriale del “New York Times” che accadeva in Italia? Che la segretaria di Radicali italiani Rita Bernardini, la presidente Laura Arconti (una compassata signora ultra-ottantenne) e un mai domo Marco Pannella, dopo averne dato regolare annuncio e pubblicità, piantavano semi di marijuana, nel giardino di casa Bernardini, commettendo quello che, per le leggi vigenti, è un palese reato. Non risulta che nessuno sia intervenuto, polizia, carabinieri, magistratura, con buona pace dell’obbligatorietà dell’azione penale; e anche se negli stessi giorni le cronache dei giornali riferivano di alcuni arresti di persone colpevoli di coltivare marijuana o hascisc a casa loro, o nel loro giardino. Un’azione di disobbedienza civile che si situa in quel solco, aperto, pensate, 39 anni fa, da Pannella, quando nella sede del Partito Radicale accese e fumò una sigaretta con hashish simile a quelle “fumate” da centinaia di ragazzi che per una “canna” erano stati sbattuti in galera; perché la legge di allora non faceva alcuna distinzione tra consumatore e spacciatore, tra droghe pesanti e droghe leggere. Pannella aspirò qualche boccata, anche allora le autorità erano state avvertite; decisero che era una gatta che si doveva pelare l’allora capo dell’antidroga romana, il commissario Ennio Di Francesco, uno dei leader delle battaglie per il sindacato e la democratizzazione della polizia; Di Francesco dopo aver fatto il suo dovere, cioè arrestare Pannella come legge imponeva, gli inviò un telegramma di solidarietà per il valore dell’iniziativa. Per quel telegramma Di Francesco venne poi messo sotto inchiesta, trasferito e gli fu tolta l’importante inchiesta che stava svolgendo contro alcune grandi organizzazioni di spaccio di droga, come il clan dei marsigliesi sbarcati a Roma.
Analoghe manifestazioni di disobbedienza civile nel corso degli anni vennero poi effettuate da Angiolo Bandinelli quando era consigliere comunale a Roma, e da Jean Fabre, nella sua veste di segretario radicale; anche loro per qualche giorno in carcere, ma alla fine quella odiosa legge che equiparava spacciatori a “spacc”ati” venne modificata. E siamo all’oggi: il terzetto Bernardini-Arconti-Pannella, un’associazione per delinquere la si potrebbe configurare. Della loro disobbedienza civile ha parlato quasi nessuno, a parte qualche giornale di nicchia come “Il Garantista” o “Il Manifesto”; ma nessun grande dibattito, nessuna vera informazione, nessun confronto. Neppure critiche o polemiche. Eppure l’uso della marijuana almeno a scopo terapeutico, per quei malati sofferenti che così soffrirebbero di meno, dovrebbe e potrebbe essere concesso; o meglio: possono utilizzarla ma per poter usare devono farsela inviare dall’Olanda pagando cifre da capogiro; non se la possono coltivare, e spesso sono costretti ad acquistarla illegalmente con tutti i rischi che la cosa comporta. Non è illogico, tutto ciò? Vero è che nessun giornale in Italia si sogna nell’occhiello di prima pagina di pubblicare: “Tutte le notizie che vale la pena di stampare”.