Torna la questione delle immunità parlamentari. Garanzie o privilegi – su questo le opinioni divergono – per cui deputati e senatori non sono perseguibili per i voti dati e le opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni e – per quanto qui più interessa – non possono essere arrestati o comunque privati della libertà personale, perquisiti o intercettati, senza l’autorizzazione della Camera d’appartenenza. Con l’ultima versione della riforma costituzionale, che continua a modificare solo il Senato, mantenendo una pletorica Camera di seicentotrenta membri con la stessa esagerata indennità, le immunità rimangono (come ora) per tutti: deputati e senatori. Anche se questi ultimi non sarebbero più eletti dai cittadini, ma dai Consigli regionali (tra i loro componenti e tra i sindaci della Regione stessa).
La conseguenza sarebbe che un sindaco nei confronti del quale si procede per fatti commessi durante il suo mandato amministrativo (e purtroppo i casi – tristemente noti – non sono pochi) potrebbe usufruire, in quanto senatore, delle immunità di cui all’articolo 68 (commi 2 e 3), non potendo quindi essere arrestato, perquisito o intercettato senza autorizzazione del Senato. Non proprio un bel segnale contro la notoriamente diffusa corruzione.
Ma, d’altra parte, bisogna pur dire che la eliminazione dell’immunità nei confronti dei soli senatori, e non dei deputati (come era nella precedente versione della riforma), lascerebbe squilibrato il sistema. Se (e sottolineo se) si considerano le immunità come necessarie garanzie della funzione parlamentare, queste non possono che essere previste sia per i membri della Camera che per quelli del Senato (anche se questi ultimi hanno funzioni ridotte). Se, invece, si ritiene che le immunità siano ormai anacronistici privilegi, allora devono essere eliminate per tutti. E forse varrebbe la pena valutare questa seconda opzione, come qualcuno propone anche in Parlamento.
Il fatto è che la scelta per il mantenimento dell’immunità – ad oggi maggioritaria (perché, a quanto risulta, appoggiata dal Governo e da una parte dell’opposizione) – determina nei fatti una sua estensione a causa del doppio incarico dei senatori (sempre sindaci o consiglieri regionali).
La questione centrale, quindi, è ancora quella del doppio incarico, che inevitabilmente porterà conflitti di interessi e altri problemi di sovrapposizione dei ruoli, tra cui, appunto, quelli appena ricordati sulle immunità. Per questo, fino ad ora, nel nostro come in altri Paesi, si è proceduto progressivamente verso una più chiara separazione delle cariche e delle funzioni. In Francia, ad esempio, una legge organica del febbraio 2014 rende incompatibile con le cariche di deputato o senatore tutta una serie di altri uffici, tra cui quelli di amministratore locale (ad esempio di sindaco, di sindaco di arrondissement, di vice-sindaco, di presidente e vice-presidente degli enti pubblici di cooperazione intercomunale, di presidente e vicepresidente del consiglio dipartimentale, regionale ecc.). In Italia, l’incompatibilità tra la carica di parlamentare e quella di consigliere regionale è sancita addirittura in Costituzione, mentre l’incompatibilità con la carica di sindaco (salvo di piccoli comuni) era stata stabilita da una legge del 2011, anche a seguito di una decisione della Corte costituzionale.
Con la riforma si torna indietro, con più doppi incarichi (e conflitti di interessi) e più immunità (o, per essere più precisi, una estensione delle stesse anche ai rappresentanti di istituzioni territoriali, quando anche senatori). Indubbiamente non una bella novità. I punti da correggere sembrano, insomma, ancora molti, ma la discussione, d’altronde, è appena iniziata (anche se forse non nel migliore dei modi).
* professore ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Pisa (Giurisprudenza). Avvocato patrocinante di fronte alle giurisdizioni superiori