Quando gli storici ne scriveranno tra qualche decennio – sempre che decidano di scriverne, privilegiando una volta tanto le vicende più complesse di questo Paese e non i giochi di Palazzo – si ricorderà senza dubbio la notte tra il 6 e il 7 giugno del 2014 come data epocale nella storia del contrasto alla criminalità organizzata al nord e in particolare della lotta alla ‘ndrangheta in Lombardia, un tempo considerata immune dalle possibili infiltrazioni mafiose.
Una criminalità, quella di origine calabrese, senza ombra di dubbio oggi la più agguerrita tra le mafie nostrane, in grado di estendersi con i suoi tentacoli al di fuori del nostro Paese tanto da diventare una minaccia pubblica a livello internazionale.
Una data da ricordare dunque. Una data davvero storica perché segnata dalla decisione della VI sezione penale della Corte di Cassazione che, mettendo un timbro definitivo al primo filone del processo “Crimine/Infinito”, nato dal blitz ordinato dalle DDA di Milano e Reggio Calabria a metà luglio del 2010, certifica l’esistenza di un organismo verticistico di controllo delle cosche nel bel mezzo della fantomatica Padania e ne sanziona l’esistenza, comminando in totale ben otto secoli di carcere ai soggetti facenti parte delle cosche all’opera nella regione più importante del nord del Paese, in quello che viene considerato il motore economico d’Italia.
Un organismo direttivo quello di cui la Suprema Corte parla – denominato dagli stessi affiliati con una non malcelata ironia “la Lombardia” – in grado di garantire unitarietà d’azione ai locali sparsi sul territorio regionale e identificate negli atti processuali. Un elenco da mandare a memoria, per evitare le amnesie di chi preferirebbe archiviare tutto rapidamente: Milano centro, Bollate (MI), Bresso (MI), Cormano (MI), Corsico (MI), Legnano (MI), Limbiate (MI), Pioltello (MI), Rho (MI), Solaro (MI), Pavia, Canzo (CO), Erba (CO), Mariano Comense (CO), Desio (MB), Seregno (MB).
Una rete diffusa sul territorio lombardo fatta di contatti informali e di rapporti solidi con quello che è “il capitale sociale” della ‘ndrangheta in Lombardia: un fitto reticolo di relazioni con insospettabili esponenti dell’economia e della finanza e rappresentanti della politica e delle istituzioni, in grado di assicurare agli uomini delle ‘ndrine di arrivare a massimizzare profitti e di perfezionare business leciti e illeciti a favore di un’organizzazione criminale ritenuta – a torto – fino ad un decennio fa un pericolo minore rispetto a Cosa Nostra.
La sentenza della Cassazione scrive l’ultima pagina del giudizio abbreviato emesso dal gup del Tribunale di Milano Roberto Arnaldi nel novembre 2011 e poi parzialmente confermato in appello nell’aprile 2013 e riguarda la gran parte dei soggetti indiziati, al termine delle indagini coordinate dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini e dei pm Alessandra Dolci e Paolo Storari.
Altri filoni processuali sono in itinere presso i Tribunali di Milano e di Reggio Calabria e sarà interessante vedere se avranno la stessa lettura assicurata da quest’ultima sentenza. Secondo la ricostruzione operata nei diversi gradi di giudizio, “la Lombardia” era arrivata addirittura a vagheggiare progetti secessionisti dalla casa madre in Calabria, rappresentata dalle storiche “Province” di Reggio, della Piana e della Ionica.
Un progetto peraltro suicida che portò prima all’eliminazione di un boss come Carmelo Novella nel 2008 in un bar di San Vittore Olona, alle porte di Milano, e poi allo storico summit dell’ottobre 2009, ripreso dalle telecamere dei ROS dei Carabinieri nel circolo per anziani di Paderno Dugnano, dove i capi della ‘ndrangheta in Lombardia si riunirono. Un incontro segreto resosi assolutamente necessario per nominare i nuovi vertici, dopo l’eliminazione di Novella, voluta per reprimere nel sangue il tentativo di affrancarsi dai clan calabresi e per lanciare un monito a tutti gli affiliati.
Un summit le cui immagini sono poi state consegnate alla memoria collettiva grazie ad internet e ai social network e che racconta di come i boss ‘ndranghetisti si diedero appuntamento in quella struttura dedicata alla memoria dei giudici Falcone e Borsellino, noncuranti dell’offesa alla loro memoria. Uno sfregio pensato e voluto, ma che si immaginava sarebbe rimasto un segreto custodito dai partecipanti alla riunione.
La sentenza della Corte di Cassazione inaugura una nuova chiave di lettura del fenomeno ‘ndrangheta, storicamente considerata refrattaria ad organismi verticistici di comando e proprio per questa libertà organizzativa in grado di diffondersi in Italia e nel mondo, senza troppi vincoli gerarchici, facendosi però forte delle tradizioni e delle regole che pure restavano quelle delle origini e della terra calabrese.
Sono passati meno di quattro anni dal blitz del luglio 2010 e sembra passato un secolo. Soprattutto oggi diventa difficile leggere il quadro della presenza delle mafie nel nord, in particolare in Lombardia, la regione più toccata dalle indagini antimafia degli ultimi anni. Sembra sempre più difficile per la politica negare l’esistenza di una ramificata presenza delle cosche nel territorio, presenza definita ormai con il termine della “colonizzazione” da parte della Direzione Nazionale Antimafia.
Sembra sempre più difficile per l’opinione pubblica far finta di non avere questa presenza scomoda in casa, ben dentro i confini di una terra colpevolmente ritenuta immune. Sembra, infine, sempre più difficile però scaricare il peso del condizionamento criminale degli appalti per EXPO 2015 sulla cricca dei “soliti noti” presi con le mani nella marmellata appena qualche settimana fa. Eh sì, perché la matematica non è un’opinione.
All’indomani dell’operazione del luglio 2010, Ilda Boccassini in conferenza stampa annoverò tra gli effettivi a disposizione della ‘ndrangheta in Lombardia ben 500 elementi. Se 150 furono arrestati allora, significa che in circolazione ce ne sono almeno 350.
E anche se alcuni fossero finiti nelle maglie della giustizia in altri procedimenti, vogliamo pensare che i molti restanti se ne stiano buoni e calmi, in attesa che passi la “nuttata” o meglio l’EXPO, senza provare a fare quello che sanno fare meglio?