Visto che scriviamo nel pieno dei Mondiali, il paragone calcistico è il primo che ci viene in mente per descrivere il complesso scenario politico che si profila ai nostri occhi. Perché se fossimo davvero su un campo di calcio, la scena che ci si presenterebbe davanti sarebbe la seguente: un arbitro (il presidente Napolitano), circondato da tre soli giocatori (Renzi, la Boschi e Delrio), tutti e tre appartenenti alla stessa squadra, di cui uno, il più bravo (ovviamente Renzi), nel ruolo di capitano e centravanti di sfondamento. E gli avversari? Svaniti, evaporati, dissoltisi dopo il 25 maggio nel nulla delle loro contraddizioni.
Capirete che una partita del genere sarebbe impossibile da disputare: nessun arbitro ne fischierebbe mai l’inizio e gli unici fischi che si potrebbero udire sarebbero quelli degli spettatori dagli spalti, indignati per l’abbandono della squadra avversaria, talmente priva di coraggio da rifiutarsi persino di scendere in campo.
Ebbene, l’immagine che abbiamo di fronte è esattamente questa: una partita delicatissima, quella per il futuro del Paese, considerato nel suo assetto istituzionale e costituzionale, nelle sue riforme essenziali (lavoro, fisco, giustizia, Pubblica Amministrazione e molte altre ancora) e nei suoi equilibri per i decenni a venire, che vede in campo tre soli giocatori di una sola squadra, con gli altri giocatori della stessa squadra seduti in panchina a fare il tifo o spediti in tribuna perché riottosi e restii ad assecondare la vulgata corrente (Chiti, Mineo e i quattordici senatori che, nei giorni scorsi, si erano autosospesi dal partito) e le squadre avversarie anch’esse in panchina (Forza Italia) o incerte se restare in tribuna a urlare contro l’universo-mondo o accomodarsi quanto meno in panchina (il Movimento 5 Stelle) per avvicinarsi ai tre tenori da cui l’Italia intera si aspetta mirabilie.
Sappiamo bene che questo inizio, più che ad un articolo giornalistico, somiglia molto ad una descrizione surreale, vagamente ispirata al “realismo magico” di Márquez; fatto sta che la realtà non si discosta affatto da questa descrizione ai limiti dell’assurdo, essendo il nostro un sistema socio-economico, per non parlare di quello politico, ridotto allo stremo, sfibrato, privo di giunture e punti di riferimento, in cui “ognuno sta solo sul cuor della terra” a macerarsi in un individualismo costrittivo e asfissiante che non concede alcuno spazio al pensiero e alla riflessione, al dialogo e al confronto, in cui l’estremismo dilaga, la ragionevolezza, giorno dopo giorno, si affievolisce, e un solo uomo, felicissimo di essere “solo al comando”, accelera come nemmeno Fausto Coppi nella Cuneo-Pinerolo, senza minimamente preoccuparsi del fatto che la rinascita di una Nazione in macerie non può basarsi unicamente sul trionfo di un singolo, per quanto bravo e determinato.
Perché il punto è proprio questo e lo abbiamo scritto già altre volte: Matteo Renzi oggi ha un solo vero avversario, ossia se stesso e la sua sconfinata ambizione. Provando a metterci per cinque minuti nei suoi panni, infatti, anche in noi cresce una vertigine e un senso di onnipotenza mai provato prima: gli avversari, semplicemente, non esistono o, se esistono, stanno bene attenti a non farsi vedere.
Prendiamo il Movimento 5 Stelle: diviso, litigioso, incapace di produrre una proposta politica concreta che sia una, costretto, per uscire dall’isolamento, ad allearsi in Europa con un figuro come Farage e, in Italia, a tornare a Canossa, in ginocchio da Renzi, dopo avergliene dette di tutti i colori e aver cacciato chiunque suggerisse la strategia di puro buon senso di andare a vedere le carte del premier.
Prendiamo Forza Italia: squassata al proprio interno, obbligata a fare i conti con i guai giudiziari e gli innumerevoli fallimenti di un leader oramai alla frutta, incapace di rinnovarsi e di esprimere una nuova classe dirigente minimamente credibile e in grado di costruire un centrodestra europeo degno di questo nome, costretta a rilanciare lo stanco “mantra” del presidenzialismo per far parlare di sé e piantare un’esile bandierina nella speranza di riaggregare almeno i pezzi sparsi della destra radicale (Fratelli d’Italia e la Lega) ma, al tempo stesso, condannata a una sostanziale irrilevanza dall’impossibilità, stavolta, di far saltare il tavolo, come era avvenuto ai tempi della Bicamerale di D’Alema.
Prendiamo la sinistra, a cominciare da quel Campo di Agramante che è il PD. All’interno del partito che oggi domina la scena sanno tutti almeno due cose: che il partito non c’è più da tempo, forse da prima dell’8 dicembre ma da quel giorno di sicuro, e che la maggior parte degli elettori non ha votato per una comunità in cammino ma per un singolo in cui molti elettori del centrodestra vedono la continuazione naturale di Berlusconi e del berlusconismo. Una sostituzione in piena regola, più che una rottamazione secondo gli schemi classici riservati alla vecchia dirigenza. E sanno anche, almeno i più accorti, che quel 40,8 per cento da far venire i brividi è, in realtà, un risultato da prendere con le molle perché quasi la metà degli italiani è rimasta a casa, perché la sinistra ha perso in roccaforti storiche come Livorno e Perugia, per non parlare di Padova, e perché, ovviamente, alle Politiche, quando anche l’elettorato del centrodestra si reca, suo malgrado, in massa alle urne, una destra ricompattata sarebbe in grado non diciamo di vincere ma, comunque, di erodere almeno cinque-sei punti allo strapotere renziano. Pertanto, si tratta di un risultato ottimo ma da riporre rapidamente nel cassetto, anche perché non sposta nemmeno di una virgola la composizione del Parlamento.
Poi c’è SEL e questa è un’altra nota dolente perché, se è vero che non cambia la composizione del Parlamento, nelle prossime settimane potrebbero mutare, e non poco, gli equilibri parlamentari, visto che la frattura apertasi sul Decreto IRPEF ha portato a una drammatica spaccatura interna, con il passaggio al Gruppo Misto di esponenti importanti come l’ex capogruppo Migliore (da mesi in contrasto con Fratoianni, fautore della linea di opposizione dura al governo, promotore della Lista Tsipras contro la linea “miglioriana” del sostegno a Schulz per favorire l’ingresso di SEL nel PSE e propenso a riunire le frastagliate anime della sinistra radicale anziché guardare verso il PD e una prospettiva di governo), Claudio Fava, Titti Di Salvo e Ileana Piazzoni. E altri deputati sembrano essere pronti a seguirli, a dimostrazione che oramai Vendola non è più in grado di mediare fra le varie anime e che la sua segreteria è in grandi difficoltà, se non definitivamente giunta al capolinea.
Renzi, dunque, è come il Brasile: questi Mondiali, in cui gioca con tutto il pubblico a favore, può perderli solo lui. Siamo oramai al monopolarismo, anzi al monoleaderismo, di fatto che si traduce, sul piano pratico, in un’alchimia che potremmo definire “antipolitica di governo”: una miscela perfetta di berlusconismo istrionico e capacità di tenere la scena da solo, di grillismo anticastale, in grado di entrare in sintonia con le viscere di un Paese allo sbando, sommerso da cumuli di corruzione e malaffare pressoché ovunque, e quel pizzico di cultura democratica che gli deriva, in parte, dalla tradizione popolare e, in parte, dalla necessità di farsi accettare dall’anima profonda di un partito che non lo amerà mai ma si sta sforzando di sopportarlo con cristiana rassegnazione.
Che tutto ciò costituisca un pericolo per la democrazia e per il nostro assetto istituzionale e costituzionale è fuor di dubbio, mancando sia il protagonismo dei corpi intermedi (invisi alla maggior parte della popolazione, a cominciare da Renzi, e considerati fra i responsabili del disastro italiano degli ultimi vent’anni) sia quell’imprescindibile base di conflitto sociale fra le parti che ha regolato finora il nostro stare insieme.
Siamo, in conclusione, alle prese con una democrazia monca e svuotata dall’interno delle sue funzioni di regolazione e di controllo; e Renzi, per riprendere un parallelismo di Scalfari, sta recitando a meraviglia il ruolo del pifferaio di Hamelin. Tutt’e capire quanto possa resistere un assetto in cui un solo uomo ha ingurgitato e sta dominando l’intero sistema politico e mediatico e quale sia il nostro ruolo in questa favola: se quello del popolo che riemerge dal baratro della crisi o quello dei topi che, ammaliati dal magico suono del piffero, si recano festanti ad annegare nel fiume.