Molti si sono chiesti se a Palermo non fosse cambiato nulla di fronte al (quasi) centinaio di arresti, delle cosche delle zone dei Colli di Palermo, e dopo poco tempo dall’eliminazione della famiglia mafiosa Lo Piccolo.
In primis, bisogna prendere atto con soddisfazione che sono state sgominate grazie all’efficienza investigativa e inquirente dello Stato, importanti o capillari organizzazioni criminali, cosa impensabile alcuni decenni fa sia perché mancavano strumenti giudiziari specifici, (vedi il 416 bis della Legge Rognoni-La Torre e evoluzioni della normativa antimafia) sia per l’uso intelligente degli apparati tecnologici (intercettazioni ambientali, specializzazioni investigative) sia per la maggiore sensibilità degli apparati dello Stato e dell’opinione pubblica.
Se tutto ciò è vero, come è vero, perché il fenomeno mafioso si riproduce con tanta velocità nelle aree tradizionali e nuove del Paese? Rispondere a questo logico interrogativo significherebbe saper rimuovere le cause economiche e sociali del fenomeno. Intanto, evitiamo di parlare di infiltrazioni delle mafie, esse sono radicate grazie alle compiacenze e al vantaggio ottenuto da una parte del mondo delle imprese, ma anche della società e della politica. Non a caso i magistrati hanno potuto usare una norma penale come la concorrenza illecita con aggravante mafiosa. La protezione mafiosa è imposta ma anche accettata da molte imprese. Su 34 imprenditori estorti, solo uno ha denunciato le richieste di pizzo.
Dopo qualche decennio di occupazioni abusive di case allo Zen, ancora oggi gli abusivi, in assenza del Comune di Palermo, pur retto oggi da un’amministrazione sicuramente antimafiosa, per avere l’acqua e la luce pagano la cosca della zona. Eppure la repressione del fenomeno mafioso è attiva su tutto il territorio, come dimostrano le indagini e i rinvii a giudizio, grazie a procure attente, per l’Expo di Milano, la ricostruzione de L’Aquila, per i Casalesi e per la Camorra e la ‘ndrangheta. Dal Sud alle regioni del Centro-Nord.
Il Governo nazionale ha mostrato segni concreti di contrasto con il rafforzamento dell’autorità anticorruzione, si è impegnato a reintrodurre nel codice penale il reato di falso in bilancio, la modifica dei tempi di prescrizione da sospendere al momento del rinvio a giudizio e altre norme contro i reati finanziari. Le organizzazioni datoriali e dei lavoratori in ogni occasione riconfermano il loro impegno antimafia.
Nella Piana di Sibari, cuore della ‘ndrangheta, Papa Francesco ha ribadito in modo autorevole, chiaro e semplice quanto era stato detto dai suoi predecessori usando in modo esplicito il termine “scomunica delle mafie”.
Pur tuttavia, dopo questa breve elencazione rimane insoddisfatto l’interrogativo iniziale: allora perché il fenomeno si riproduce e si espande persino nelle regioni dove il territorio civile è più forte e democratico?
(Primo tentativo di risposta). La repressione funziona, la prevenzione no. Basta verificare chi controlla la sicurezza della città e delle campagne, della loro vita economica e sociale e culturale. Coloro che gestiscono la protezione attraverso il racket o i vari traffici illeciti sono dei dispensatori di lavoro. Vedi il caso delle imprese mafiose che a L’Aquila forniscono manodopera in nero alle altre imprese, ovunque controllano la gestione dello spaccio e degli altri affari illeciti (dal trasporto su gomma ai rifiuti tossici). Costoro controllano anche un mercato di voti (anche assai caro e a volte poco fruttuoso), il mercato del precariato (vedi i Pip). Tutto ciò è stato reso possibile dalla debolezza della politica che ha fatto finta di non vedere e non sapere. Tutti dovranno cambiare approccio: partiti, politici, governi, Chiesa, sindacati e associazioni datoriali. Non basta più la condanna morale o peggio l’antimafia ipocrita (oggi fa più tendenza dirsi antimafioso per oscurare ogni forma di illegalità). Questo vale anche per la Chiesa. Don Francesco Michele Stabile storico, documenta nel suo libro di qualche anno fa, “I consoli di Dio”, come la Chiesa abbia pronunciato nel dopoguerra diverse condanne contro la criminalità, pur senza chiamarla mafia, ma ad essa riconducibili. Nel 1944 contro gli esecutori organizzati di delitti, nel 1952 anche contro i mandanti, nel 1982 la Conferenza Episcopale siciliana (CES) ha riconfermato quelle condanne, pur non ricorrendo alla scomunica, che invece il Santo Uffizio aveva pronunciato in maniera esplicita contro i comunisti nel 1949, poi il pronunciamento di Giovanni Paolo II ad Agrigento nel 1993, nel 1994 quello della CES dopo l’uccisione di don Pino Puglisi e infine, nel 2010, quello di Benedetto XVI a Palermo durante l’incontro con i giovani.
Anche per la Chiesa si pone il problema di come educare i propri membri laici e clericali a riconoscere e ripudiare le mafie nella vita sociale, ecclesiale, economica, nei funerali e nelle congregazioni. Se appartenere alla mafia significa, come dice Papa Bergoglio, essere nemico del bene comune ai mafiosi non possono essere dati i conforti religiosi, salvo pubblica conversione.
Non basta una predica morale contro la mafia, ma corsi di formazione di storia e politica antimafia nei seminari della Chiesa come nelle Università pubbliche e scelte politiche concrete nell’operato dei Governi.
Priorità e centralità ordinaria della questione mafiosa e della corruzione per riformare il sistema politico italiano. Da Crocetta e da Renzi attendiamo, dopo i primi segnali positivi delle loro azioni, una “rivoluzione politica” nella loro azione governativa antimafia.