Il settore giustizia vive un momento di passaggio epocale, il monito e la sanzione art.3 CEDU hanno reso le istituzioni italiane consapevoli della gravità delle condizioni penitenziarie perchè gli istituti di pena rappresentano il luogo del riassunto delle difficoltà sociali, la conseguente risposta giudiziaria e per antonomasia, la modalità di esecuzione della pena. Nell’ultimo anno, gli sforzi in termini legislativi sono stati apprezzabili, considerati in maniera positiva dalle istituzioni europee ma le questioni da risolvere rimangono molteplici. La giustizia necessita di una disamina ad ampio raggio che non sia esclusivamente tecnica. Essa abbisogna di tecnici del diritto la cui conoscenza giuridica deve integrarsi di indagini e dell’apporto a contenuto sociologico, antropologico, storiografico. Sino a quando il diritto continuerà ad essere espressione esclusiva di arzigoli giuridici a modo di matematico, separati dall’espressione delle reali esigenze sociali, ci troveremo di fronte a un impianto normativo claudicante perché applicabile teoricamente a tutti ma incidente solo su determinate categorie sociali. E la giustizia non dovrebbe operare discrimini.
Le autorevoli analisi di Gherardo Colombo o Roberto Scarpinato evidenziano da un lato, come il voler risolvere ogni conflitto con una richiesta in termini processual penali non sia proficuo ma solo funzionale a un nucleo sociale fondato sulla verticalità e dall’altro, come la commistione tra economia e politica lasci ampio margine di azione a ipotesi di corruttela. Avere una visione ampia dei meccanismi e dei comportamenti umani e del loro significato nel lungo periodo storico offre spunti in chiave pluralistica relativamente alla deduzione dei necessari cambiamenti da apportare ai settori istituzionali. Analisi decontestualizzate e a volte, prive di necessarie competenze, conducono a visioni parziali, lontane della realtà, scollate dalle esigenze reali.
Un mutamento repentino nel paradigma fondante le società occidentali potrebbe considerarsi di difficile eventualità ma avere uno sguardo verso l’altro, verso il singolo come verso la cultura dei popoli, potrebbe rappresentare un passo di riappropriazione del lato umano disperso. Come afferma R. Kapuscinski, << ogni volta che l’uomo si è incontrato con l’altro, ha sempre avuto davanti a sé tre possibilità di scelta: fargli guerra, isolarsi dietro un muro, o stabilire un dialogo.>> Il penitenziario è oggi lo specchio dei meccanismi di esclusione dalla comunità sociale; esso è rappresentativo della inamovibilità, del congelamento esistenziale e della burocratizzazione del lavoro, una mera e puntuale mansione svolta che si incardina nelle molteplici azioni individuali che fanno chiudere il cerchio di una giornata che, anche nel lungo periodo, ci lascia a digiuno nella realizzazione di obiettivi di spessore.
In Italia andrebbe spostato avanti il livello di lettura di beni e servizi; se il penitenziario è un servizio reso ai cittadini, esso deve aumentare livelli di efficienza e garanzia sia per i reclusi che per il personale operante. A prima vista inopportuno il richiamo a un saggio sul dono che nulla sembrerebbe avere in comune con una disamina della questione giustizia e carceri ma la descrizione delle società delle isole del Pacifico operata da Marcel Mauss ove scambio e dono sono considerati fonte delle relazioni sociali lascia desumere che le società occidentali hanno costruito un impianto normativo rigido, fondato non solo sulla differenza tra l’obbligazione e l’atto di liberalità ma separando nettamente, anche in termini di garanzia, diritti reali e diritti individuali. La maggiore rilevanza dei primi a scapito dei secondi sono evidenti e questi ultimi presentano oggi, si pensi alla sentenza pilota Torreggiani, i conti del mancato esercizio circa la loro garanzia. Anche la Carta Costituzionale attribuisce grande rilievo ai diritti individuali e collettivi, a tutto ciò che concorre alla formazione della personalità come singolo e nella collettività. Il penitenziario è luogo di vita, anch’essa formazione sociale seppure deputata a tendere a una integrazione sociale da rinnovare. Senza un dialogo aperto sul concetto di pena equa, senza uno standard ripensato nel minimo della penalità, senza la previsione di meccanismi che diano responsabilità innovative a chi amministra la sofferenza* (cfr. Pietro Buffa) di chi abita gli istituti di pena, resteremo ancorati ad un’ottica retributiva. Essa penalizza in termini di efficacia il senso del valore intrinseco alla condanna penale ma anche il significato stesso della mission penitenziaria.