“L’Ambasciatore Staffan de Mistura ci ha detto che se l’Afghanistan reggerà almeno quattro mesi dal ritiro delle truppe internazionali sarà un successo. Quattro mesi, ha capito? Cinquantaquattro caduti per quattro mesi di pace”. E’ questa la fosca previsione consegnata dall’ambasciatore al contingente italiano che si appresta a ritirarsi dal Paese asiatico entro il gennaio 2015. A parlarci è un alto ufficiale dell’esercito italiano con un’esperienza pluriennale sul teatro afghano. La presenza italiana, inquadrata all’interno della missione internazionale ISAF, è costata,dal 2001 ad oggi, ai contribuenti del belpaese circa 5 miliardi di euro soltanto per il mantenimento delle truppe in Afghanistan, gli stipendi dei nostri soldati, infatti, sono stati coperti dalla NATO.
Il bilancio offerto da uno dei nostri ufficiali di più alto in grado sul terreno è a tratti sconfortante. I quattro mesi di tregua previsti dalla nostra diplomazia sono il risultato di un quadro “non modificato dalla presenza dei militari stranieri perché non siamo andati a colpire il cuore del problema afghano” individuato nei signori della guerra e, alquanto paradossalmente stando almeno alla retorica ufficiale dell’ultimo decennio, non nei talebani. Gli studenti coranici, secondo i nostri militari, “sono l’ultimo dei problemi, sia perché hanno una guida politica individuabile e riconosciuta, sia perché sono circoscritti in una zona molto limitata dell’Afghanistan”. I tradizionali warlord espressione del mosaico inter-etnico che compone il complesso quadro afghano, invece, sono da trent’anni al loro posto, forti di armi, introiti del narcotraffico e del controllo su di una popolazione “in alcune zone ancora ancorata ad uno stile di vita medioevale”. E visto che la missione militare internazionale aveva tutt’altro scopo, i signori della guerra sono rimasti ben saldi al loro posto.
Se la missione in Afghanistan era nata all’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle di New York al fine di scalzare i talebani al potere a Kabul e dare la caccia ai terroristi di Al Qaeda, i soldi investiti nelle operazioni militari non hanno avuto alcuna ricaduta sulle popolazioni civili. “Nelle mie missioni”, ci ha raccontato l’ufficiale, “alla domanda di cosa avessero bisogno i villaggi, la prima risposta è sempre stata: l’acqua. Volevano che scavassimo dei pozzi”. Nemmeno i tanto sbandierati addestramenti ed equipaggiamento dell’esercito afghano rischiano di essere duraturi. Le basi consegnate un anno fa dagli italiani “sono già a pezzi, hanno addirittura rivenduto al mercato gli infissi delle finestre”, ci raccontano, “e senza la catena logistica a supporto, anche i mezzi che lasceremo resteranno fermi dopo poche settimane”. L’eco di quello che sta avvenendo in questi giorni in Iraq è un avvertimento che non si può ignorare.
Dopo il ritiro del contingente italiano non si annullerà la nostra presenza sul terreno, bensì sarà modificata. I nostri militari, infatti, continueranno a formare i loro colleghi afghani – non più le truppe, ma gli ufficiali – senza però più affiancarli nelle operazioni sul terreno. Il costo previsto è di circa 300 milioni all’anno per i prossimi tre anni, più circa 100 milioni promessi nel prossimo triennio in stipendi per i soldati afghani.
La domanda è allora: cosa ci siamo andati a fare? Anche qui il bilancio è amaro. “L’esercito è diventato uno strumento di politica estera. Senza le missioni fuori dall’Italia le Forze Armate non avrebbero i soldi per pagarci gli stipendi. Siamo ridotti così e non siamo nemmeno riusciti a negoziare qualcosa in cambio. Prendete i francesi in Libia che in cambio del sostegno hanno chiesto e ottenuto concessioni petrolifere”.