Urgenti problemi di governance economica dell’Unione Europea

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È sconsolante vedere come la stampa italiana (peraltro giustamente e vergognosamente  classificata dagli organismi internazionali nelle posizioni più basse per quanto riguarda il suo  grado di libertà) spinga l‘opinione pubblica verso una crescente banalizzazione dei temi della  politica economica italiana ed europea e verso una diligente ignoranza delle opinioni non  conformiste.

Così, anche alle elezioni europee si giunge senza un confronto sui reali problemi dell’Unione,  mettendo invece in scena uno scontro ipersemplificato tra “chi è favorevole e chi è contrario  all’Europa”. Se il giudizio sulle misure adottate dall’Unione Europea per il superamento della crisi  non può certo essere positivo, ancor più negativa e sicuramente più preoccupante è l’architettura di  governance da cui tali misure scaturiscono, nonché l’ulteriore allarmante evoluzione (anzi  involuzione) prospettata con l’ipotesi dell’istituzione del Fondo di Redenzione del Debito. Ipotesi  del tutto assente dal dibattito, ignorata dalla stampa, ma sulla quale mi sembra necessario e urgente  richiamare la massima attenzione.

1. A fronte delle inadeguate (o addirittura erronee) misure sta la gravità dei processi decisionali con  cui esse vengono adottate, ossia la struttura della governance. La prima osservazione da fare è che  la fondamentale istituzione democratica dell’Unione Europea, e cioè il Parlamento Europeo, non  svolge praticamente alcun ruolo nei processi decisionali, né costituisce l’organo al quale devono  essere rendicontate le politiche. Stando così le cose, l’Unione Europea non può essere considerata  propriamente uno Stato federale. Il processo decisionale vigente nell’Unione sembra piuttosto  appartenere alla categoria della cooperazione internazionale e dei trattati internazionali. Infatti i  principali organismi più coinvolti nel processo decisionale sono il Consiglio Europeo e  l’Eurogruppo. Il primo è composto dai capi di Stato o di Governo dei paesi membri più il suo  presidente eletto, mentre ha diritto a partecipare agli incontri anche il presidente della Commissione  Europea. Il secondo è composto dai ministri delle finanze degli Stati membri che hanno adottato  l’Euro; di solito si incontra il giorno precedente la riunione del Consiglio degli affari economici e  finanziari (Ecofin), che a sua volta è la configurazione assunta dal Consiglio dell’Unione Europea  quando sono all’ordine del giorno questioni di bilancio e di finanza pubblica.

Ma nel processo decisionale entrano anche con peso determinante da un lato la Banca Centrale  Europea, e dall’altro le intese informali tra un ristretto numero di paesi (generalmente la Germania  più qualche partner temporaneo in funzione ancillare). Esercitano inoltre una forte influenza la  cosiddetta “Troika” (cioè la BCE, il FMI e il Presidente della Commissione Europea) e un’altra  struttura informale che pur avendo una dimensione super europea è molto influente nel campo della  politica economica dell’U.E.: si tratta del Financial Stability Forum: una sorta di club di Governatori di Banche Centrali, regolatori e altre organizzazioni internazionali, nato nel 1998 dopo  la CRISI Russa in supporto del G7, che ha visto crescere la sua influenza nei successivi G8 e G10.  Ciò che va sottolineato è il carattere prevalentemente informale di questa struttura di governance,  non nel senso che i loro componenti (per esempio, Angela Merkel o Mario Draghi) siano  “informali”; ma nel senso che non è formalmente definito il ruolo, il potere, l’influenza che essi di  fatto esercitano nel processo decisionale dell’Unione Europea. Le decisioni, si può dire, maturano in  sedi informali dove un peso preponderante è esercitato dai paesi (o dal paese) più forti e poi  vengono “passate” alle istituzioni comunitarie per la loro formalizzazione; ma non sempre è così.  Talvolta trattati e accordi fra gli Stati (come per esempio il “Fiscal Compact”) non raggiungono gli  organi legislativi dell’Unione; ma, essendo espressione della cooperazione inter-nazionale interna all’Unione, vengono direttamente passate agli organismi tecnici, burocratici, per la loro implementazione. Nascono così quei meccanismi sanzionatori automatici che in base all’art. 7 del  TSCG possono essere bloccati soltanto da un voto contrario del Consiglio Europeo a maggioranza  qualificata (“the rule of reverse qualified majority”) senza che il paese in questione possa prendere  parte al voto. Si deve sottolineare in questi trattati la chiara consapevolezza dell’obiettivo di ridurre  nel processo decisionale il peso degli organi democratici dell’Unione: infatti si specifica negli art.  12 e 13 del TSCG che “i capi di Stato e di Governo delle parti contraenti si incontreranno  informalmente in riunioni dell’ Euro Summit”, “almeno due volte all’anno”. Peraltro, il presidente  della Commissione Europea “può partecipare” a tali incontri; “il Presidente della BCE è invitato a  partecipare” e il presidente del Parlamento Europeo può essere invitato per essere sentito”. La  Governance dell’Unione Europea è uno strano ibrido: non si tratta né di un vero Stato Federale né  di una vera organizzazione di cooperazione intergovernativa. E ciò è causa di molti guai.

2. Se le cose non sono quindi messe bene al giorno d’oggi, un ulteriore peggioramento si  intravvede nella prospettata istituzione del “Fondo di Redenzione del Debito”. L’istituzione di  questo fondo è stata suggerita dal “Consiglio Tedesco degli Esperti Economici”, e il Presidente  Barroso ha affidato il compito di studiarne i dettagli applicativi ad un “Gruppo di Esperti” di sua  nomina (nessun italiano ne fa parte). Tale gruppo ha presentato le sue conclusioni entro il termine  previsto, esattamente il 31 di marzo. Ho lanciato altrove l’allarme sugli aspetti economici di questo  progetto già qualche mese fa (“Sovrumani silenzi e profondissima quiete”, Conquiste del Lavoro,  10 gennaio 2014). Il Rapporto Finale del Gruppo di Esperti sul Fondo di Redenzione rafforza le  caratteristiche originali della proposta e conferma la pesantezza delle conseguenze per l’economia  italiana; in particolare, l’onere di ripagare annualmente un ventesimo dell’eccedenza del debito  rispetto al 60% del Pil, e ribadisce che i paesi fortemente indebitati non possono sottrarsi allo  “sforzo irrinunciabile che essi sono chiamati a compiere per ridurre il debito” e che “tale sforzo  deve tradursi in una severa disciplina di bilancio che generi in particolare gli avanzi primari  necessari per ridurre il debito”. Vale la pena notare incidentalmente che l’ammontare dell’avanzo  primario da conseguire nel corrente anno nel nostro paese per ottenere un bilancio strutturale in  pareggio, come richiesto dal “fiscal compact” e come improvvidamente recepito dalla modifica  costituzionale apportata all’art. 81 della nostra Costituzione, assumerebbe un valore praticamente  insostenibile per la nostra economia. Si tratterebbe di una eccedenza del gettito fiscale sulle uscite  tale da coprire le spese per il pagamento degli interessi sul debito pubblico; cioè, secondo le stime  del Documento di Economia e Finanza del Governo, pari a quasi 80 miliardi (contro i 30 miliardi  circa di avanzo primario del 2013). E in effetti a quei valori dovrebbe gradualmente tendere  l’avanzo primario per raggiungere intorno agli anni 2020 il pareggio strutturale del bilancio  pubblico. D’altra parte, il margine di flessibilità collegato all’andamento del ciclo economico è  talmente ambiguo a causa delle difficoltà nella interpretazione e nella misurazione del ciclo da  essere da un lato estremamente labile e dall’altro fortemente soggetto a valutazioni arbitrarie.

Se i contenuti economici del Rapporto sono preoccupanti, molto più preoccupanti sono gli aspetti di  governance. Infatti, per attenuare il rischio di “azzardo morale” gli esperti suggeriscono che  contestualmente alla istituzione del Fondo venga siglato un patto che comprenda una vasta gamma di misure, e precisamente: a) la definizione di precondizioni per l’accesso al fondo: al superamento  di un test di “sostenibilità del debito”, di dubbia praticabilità, viene preferita l’esclusione degli Stati  sotto assistenza finanziaria; si richiede inoltre la previa ratifica e il rispetto del Trattato di Stabilità,  Coordinamento e Governance (TSCG) del 2012 e si suggerisce anche un “periodo di prova”; b) un  limite alla “possibilità per gli Stati membri di condurre politiche imprudenti, mediante  l’imposizione di vincoli alla loro autonomia decisionale e lo spostamento di decisioni chiave a  livello europeo”. Gli esperti lamentano che, nonostante l’obbligatorietà del parere della  commissione sullo schema di bilancio introdotta dal “two pact”, “tutte le decisioni finali in materia  di bilancio continuano ad essere prese a livello nazionale e al momento non esistono strumenti  legali per impedire ex ante che uno stato membro le prenda o per imporre emendamenti”. Si  auspicano quindi regole più forti, come l’imposizione di un deposito nel caso che la bozza di  bilancio non rispetti le richieste della Commissione o addirittura un potere di veto sul bilancio dei  singoli Stati. Si avverte però che l’introduzione di queste misure richiederebbe una revisione dei  Trattati; c) la stipulazione con le autorità Europee di “accordi di consolidamento fiscale” contenenti  programmi di rientro e di riforme strutturali; d) il deposito di collaterali per il 20% del valore del  debito trasferito al fondo, pur nella consapevolezza che la normativa europea proibisce agli Stati  membri di usare gli strumenti finanziari generalmente utilizzati come collaterali; e) il trasferimento  diretto come pagamenti al Fondo dei proventi di specifiche voci fiscali; f) l’erogazione di sanzioni  automatiche in caso di mancata “compliance”, che vadano dal già esistente deposito infruttifero,  fino alla sospensione del trasferimento dei Fondi europei, fino anche alla sospensione del diritto di  voto nelle istituzioni europee.  E’ chiaro che innovazioni di tal fatta pongono gravi problemi sul piano giuridico-istituzionale. Gli  esperti sottolineano infatti come “i vigenti trattati UE non riconoscono all’UE competenze  sufficienti per creare un Fondo di Redenzione del Debito, dati gli obblighi giuridici di ampia portata  che esso comporterebbe per gli Stati membri”, e quindi bisognerebbe procedere ad una revisione dei  trattati, tanto più che molti di tali obblighi “esulano manifestamente dalle competenze dell’UE”. Ciò  potrebbe creare complicazioni; ma, d’altro lato, si fa notare che se si procedesse a creare il Fondo di  Redenzione unicamente su base intergovernativa, “le istituzioni politiche dell’Unione Europea non  potrebbero esercitare alcun potere decisionale”.

Può un sistema così rigido di espropriazione del diritto/dovere delle scelte di politica economica dei  singoli Stati essere accettato senza una attenta riflessione? Può essere accettato come sostitutivo di  una vera politica di bilancio di una Unione Europea che tenda a configurarsi come Stato Federale?  In ogni caso si porrebbero seri problemi di legittimità e di responsabilità democratiche, da  inquadrare nel più complesso problema di revisione di un intero sistema di governance dell’Unione  profondamente fallato. È accettabile che non si prenda posizione su questi problemi? È accettabile  che si vada alle elezioni europee ignorando tali questioni, da cui dipendono anche le politiche  economiche e quindi la crescita e l’occupazione, e cercando invece voti principalmente con trovate  pubblicitarie?

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