A ventidue anni dal grande incendio che distrusse l’edificio. Durante la guerra il salvataggio delle opere fu al centro di una grande campagna europea. Oggi però l’Europa è ancora lontana.
Sarajevo, notte tra il 25 e il 26 agosto 1993. Dopo un bombardamento intenso e accanito, le prime fiamme si levano dalla Biblioteca nazionale di Bosnia ed Erzegovina a Sarajevo. Brucerà per ore senza possibilità di domare l’incendio. La riva destra della Miliatcha è completamente esposta al tiro delle armi a tiro teso dei cecchini, ma anche il retro dell’edificio, verso il quartiere storico di Bascarsjia, è martellato da bombardamenti di granate che cadono in verticale, dall’alto.
Non ci sono posti sicuri in città. La Biblioteca (“Vijesnica”) è uno dei luoghi più cari alla memoria della città che brucia. “Certe cose si danno per scontate” – mi diceva allora un’amica di Sarajevo, con il suo italiano impeccabile – “Ti accorgi di quanto ami la tua città quando le vedi in pericolo”. Poi aggiungeva: “Forse Vijesnica non è un edificio “bello”, con la sua buffa architettura moresca, ma rappresenta i ricordi di generazioni di studenti che qui hanno iniziato a scoprire il mondo” E’ più che bello: è intimamente nostro”.
Per questo un edificio strategicamente insignificante è diventato obiettivo da distruggere. In una guerra d’aggressione nazionalista, bisogna cancellare le tracce di una storia comune, a maggior ragione se amati da tutti. Come una biblioteca (o uno storico ponte, a Mostar).
Eppure per giorni centinaia di cittadini (bosniaci, serbi, croati e molto altro) hanno lavorato per salvare i libri salvabili. Li hanno portati fuori e nascosti nelle cantine. Qualcuno era stato previdente e aveva salvato un’antica copia di un’Haggadah ebraica, che prima si era salvata anche dalle deportazioni e dai roghi nazisti. La cultura mondiale glie ne è grata, non solo quella ebraica. Oggi è particolarmente importante ricordare che quella persona era di religione musulmana (ma allora non ci si faceva caso). Sarajevo era un paradigma positivo di un diritto di cittadinanza che oggi dovrebbe essere europeo.
“Sarajevo cuore d’Europa”, si chiamava un progetto di solidarietà lanciato in quei giorni dall’Associazione per la Pace. L’Università di Siena e centinaia di intellettuali (tra i quali Ginevra Bombiani, Giorgio Agamben, Adriano Sofri) lanciarono una campagna di sostegno per ricostruire la Biblioteca di Sarajevo. Iniziative analoghe si organizzarono in tutto il mondo.
Ventidue anni dopo la biblioteca riapre, ma l’Europa è lontana. A renderla un “qualcosa un poco più in là di dove tramonta il sole” – come la definisce un membro dei nuovi movimenti di protesta che hanno attraversato trasversalmente il paese – è anche l’assetto istituzionale di rappresentanza su base etnica (accordi di Dayton), che dopo aver contribuito a pacificare il paese, oggi lo paralizzano congelandolo ad uno stato di eterno dopoguerra.
Da perlapace.it