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Primo Maggio. Festa di un Paese in cerca di dignità

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1° maggio, Festa del Lavoro. Festa del lavoro che manca, del precariato, della disperazione di intere generazioni prive di dignità, diritti e futuro; festa di un tempo negato, di vite che il professor Luciano Gallino ha definito “rinviate” e anche di una generazione che si sente senza domani, che considera l’avvenire un buco nero, che guarda alla misera somma di mille euro mensili come a un miraggio e che si è oramai abituata ad accettare qualunque impiego, senza alzare la testa, senza lottare, senza rivendicare alcuna tutela sindacale, educata in base a una sorta di religione dell’obbedienza che, se ci pensate, è la negazione stessa dei diritti e delle conquiste sociali e civili che hanno scandito il processo di sviluppo del nostro Paese dal dopoguerra in poi. Una festa triste, insomma, come da diversi anni a questa parte: una festa che sarà, purtroppo, caratterizzata dalla decisione di qualcuno di tenere comunque i negozi aperti, in nome della foga liberalizzatrice che ha invaso da qualche anno l’intero Occidente, e dall’assenza di tanti ragazzi che giustamente, dal loro punto di vista, considerano quest’importantissima ricorrenza alla stregua di una presa in giro.

È così che stiamo smarrendo una generazione e, con essa, le ragioni fondative della nostra Costituzione e della nostra Repubblica: stiamo perdendo il tessuto sociale, oramai sfibrato e tenuto in piedi unicamente da una sorta di welfare familiare che si basa per lo più sulle misere pensioni di chi ha avuto quanto meno la fortuna di nascere e iniziare a lavorare prima dell’avvento devastante del liberismo, e stiamo smarrendo tutto ciò che ad esso è legato, ossia partiti seri e degni di questo nome e sindacati solidi e combattivi; per non parlare poi di tanti altri corpi intermedi, posti costantemente sotto attacco da una classe dirigente purtroppo figlia del trentennio thatcheriano della “società che non esiste”, convinta che alcune garanzie imprescindibili, quali ad esempio l’articolo 18, siano privilegi oramai superati e che si possa vivere in questa società finta, liquida, aeriforme, priva di contenuti, di sostanza, di idee, di proposte, di quel minimo di entusiasmo e di pensiero ideologico che hanno consentito a un continente dilaniato dalla guerra di risollevarsi, di tornare a vivere, a sperare, a sognare.

Guardandosi intorno, un ragazzo di vent’anni ha oggi l’impressione che non sia rimasto davvero più nulla, che qualunque cosa gli sia preclusa, che ogni orizzonte sia per lui limitato, che persino la Festa del lavoro sia qualcosa che appartiene ad altri, come se un’intera generazione, e forse più di una, fosse stata cancellata e messa da parte.

D’altronde, c’è poco da sorprendersi se consideriamo che oramai viviamo in un Paese in costante declino, con programmi scolastici obsoleti, istituti fatiscenti, università riservate ai pochi che ancora possono permettersi un’istruzione superiore, fabbriche senza commesse, una crescita basata su prodotti oggettivamente superati o, comunque, realizzati a costi dieci volte inferiori nei paesi emergenti; un Paese ostaggio di una globalizzazione selvaggia e di una finanziarizzazione dell’economia e dell’esistenza che ha progressivamente prosciugato non solo le nostre risorse economiche ma anche le nostre risorse morali, il nostro ingegno, la nostra creatività, la nostra gioia di vivere e la nostra riconosciuta attitudine a rimboccarci le maniche e ricostruire sulle macerie.

Eppure qualcosa è rimasto, i laureati italiani sono tra i più richiesti al mondo, le nostre invenzioni all’estero hanno spesso un successo straordinario, ma qui sembra che di fronte al talento e alla genialità sia stato posto un cartello dantesco con su scritto: “Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate”. E così, i dannati moderni si accalcano, in quest’inferno di contratti a termine e finte partite IVA, incarichi semestrali, laboratori di ricerca senza macchinari adeguati, scuole senza nemmeno la carta igienica, figurarsi i gessi o i supporti multimediali, animati dalla flebile speranza che almeno per i migliori fra loro qualcosa sia stato previsto oppure arresi, indotti ad andare avanti unicamente da un’incrollabile forza della disperazione e rassegnati a rimandare tutto o a rinunciare ai propri sogni: una famiglia, una casa, una piccola vacanza, talvolta persino una cena al ristorante.

Questi sono i sentimenti che scandiranno questo amaro 1° maggio 2014, mentre proseguirà la campagna per le Europee e si susseguiranno dichiarazioni al vetriolo nella speranza di strappare lo zerovirgola agli avversari. Al che, non resta che consolarsi con le riflessioni di Sandro Pertini: “Per me libertà e giustizia sociale, che poi sono le mete del socialismo, costituiscono un binomio inscindibile: non vi può essere vera libertà senza la giustizia sociale, come non vi può essere vera giustizia sociale senza libertà. Ecco, se a me socialista offrissero la realizzazione della riforma più radicale di carattere sociale, ma privandomi della libertà, io la rifiuterei, non la potrei accettare. […] Ma la libertà senza giustizia sociale può essere anche una conquista vana. Si può considerare veramente libero un uomo che ha fame, che è nella miseria, che non ha un lavoro, che è umiliato perché non sa come mantenere i suoi figli ed educarli? Questo non è un uomo libero”. È un inno alla fratellanza e alla solidarietà sociale che ben pochi esponenti politici avrebbero, oggi, il coraggio, l’autorevolezza e la forza morale di pronunciare.


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