BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Padre La Manna: “non si riducano gli sbarchi a meri fenomeni di cronaca”

0 0

Il centro Astalli è il servizio dei Gesuiti per i riugiati. Nasce nel 1981  grazie  al Padre Generale Arrupe che volle un impegno di tutti i gesuiti a livello mondiale. Il centro Astalli ora è un servizio di accoglienza :dalla mensa al dormitorio, dalle docce all’ambulatorio, la farmacia…. tutti servizi per poter pensare sin dall’inizio ad un percorso di integrazione e di autonomia. Contemporaneamente il centro Astalli si occupa della promozione culturale nelle scuole italiane perché soprattutto in questo momento storico è importante offrire ai giovani italiani una lettura diversa del fenomeno dell’immigrazione: sapere perché queste persone arrivano nel nostro Paese, chi sono,  da dove e cosa sono fuggiti. Il progetto nelle scuole spiega il diritto all’asilo e il dialogo interreligioso. Presidente del centro Astalli è padre Giovanni La Manna.

Padre La Manna , ci faccia un esempio per capire chi sono  coloro che voi accogliete quotidianamente
L’esempio lampante, quello più lampante sono i siriani che stanno scappando da più di tre anni di guerra. Arrivano in Italia. La maggior parte non vuole fermarsi ma quanti lo fanno hanno diritto ad una protezione in virtù della convenzione di Ginevra. L’accoglienza non vuol dire fare carità o essere buoni , è una questione di giustizia.  L’Italia come la maggior parte dei Paesi europei ha firmato una convenzione che obbliga ad accogliere. Abbiamo preso un impegno in merito. Quella di Ginevra non è l’unica convenzione che abbiamo firmato sul tema dei rifugiati.

Ogni giorno avete davanti ai vostri occhi la parte più “oscura” della nostra società, quella parte che non è illuminata o che non vogliamo vedere
Quello che in altre parole Papa Francesco ci ricorda che è lo “scarto”. La cultura dello scarto non tiene in conto quanti sono in difficoltà. Le difficoltà hanno tante origini. Una di queste è il dover scappare da guerre  e da contesti indegni che ancora esistono e dei quali nessuno parla. Persone che sperimentano il rischio della propria vita e di fronte a questo accettano un altro rischio che è quello di fuggire.

Quanta importanza hanno i media per illuminare questo buio, per portare alla luce le storie di questi esseri umani?
La comunicazione incide sulle persone che arrivano poi a maturare una propria idea, visione, del fenomeno. E’  grande la responsabilità dei mezzi di comunicazione come ha ribadito anche recentemente Papa Francesco parlando proprio ai comunicatori. E’ nata la Carta di Roma, un codice che invita a fare attenzione su come si comunica. Un caso eclatante è quello di Erba dove una  iniziale comunicazione errata  ed una serie di luoghi comuni  hanno portato a conclusioni errate.  Parlare di clandestini, di irregolari in tono negativo penalizza queste persone, non aiuta a conoscerle e a capire perché sono giunte nel nostro Paese. Quando negli articoli su fatti  di cronaca si parla di un immigrato si scrive nome, cognome, Paese di provenienza, se invece è un cittadino italiano si trovano al massimo le iniziali senza alcun riferimento geografico. Ci sono tante attenzioni che bisogna avere per non criminalizzare ulteriormente queste persone. La legge sul reato di clandestinità non è attribuibile alla comunicazione ma ad un livello politico cieco, incapace di affrontare certi problemi. Però se la comunicazione presta il fianco ad una politica errata il danno è doppio  e ci fa tornare  indietro.

In cosa dovrebbero cambiare a tuo giudizio i media su questo delicatissimo tema?
C’è bisogno, e spero che questa speranza si realizzi essendoci dei buoni segnali, di più coraggio: non avere paura di essere lì dove le persone sono in difficoltà e comunicare quello che accade con libertà e onestà, utilizzando un linguaggio e dei termini appropriatiE’ necessario che anche i giornalisti si documentino prima di andare a parlare di rifugiati di profughi, di quelli che sbarcano a Lampedusa. Non è pensabile che si riduca ad un fenomeno di cronaca l’arrivo di essere umani a Lampedusa. Tutto questo tocca dimensioni che meritano rispetto. Queste persone hanno pagato per rimanere fedeli alla loro idea politica o alla loro religione.  Quando parlo di loro devo avere onestà e conoscere a fondo la tematica che sto affrontando. Attraverso la comunicazione bisogna contribuire a costruire il bene comune. Basti pensare alla paura che scientificamente è stata trasmessa agli italiani in questi anni. Ripeto, è frutto di una decisione politica ma è stata comunque comunicata. Torno sul tema del coraggio. Ci sono giornalisti che per denunciare cose indegne hanno dato la loro vita. Alla luce di questi esempi siamo chiamati a crescere. Quando l’allora ministro degli interni giustificava i respingimenti per i quali siamo stati condannati dalla Corte di Strasburgo, presentava quel provvedimento come uno strumento per colpire i trafficanti e salvare le vite umane. Ora io mi sarei aspettato che qualche giornalista presente alla conferenza stampa avesse chiesto al ministro come era possibile con i respingimenti salvare vite umane. Questo è il coraggio che dobbiamo avere, in questo a mio giudizio dobbiamo crescere.

Ancor più di altri soggetti il servizio pubblico radiotelevisivo ha degli obblighi e delle responsabilità maggiori nel dover affrontare queste tematiche…
In tempo di crisi assistiamo a dei tagli trasversali che non tengono in conto l’importanza delle realtà sulle quali si va a tagliare. L’informazione è importante per crescere culturalmente e umanamente. Nell’ambito formativo ha una grossa responsabilità. Pertanto tagliare sull’informazione pubblica ci espone ad impoverimento. Il Tg  del servizio pubblico che parla dei salvataggi in mare e va a vedere e mostra in che condizioni accogliamo questi poveri disgraziati, bene quel tipo di servizio va potenziato perché genera cultura apre gli occhi dei cittadini italiani, ci aiuta a crescere ma soprattutto abitua a vivere nel quotidiano cosa accade realmente. Non solo l’emotività della tragedia, la spettacolarizzazione della tragedia. Qual è il messaggio che arriva quando si vanno a filmare le salme in fondo al mare ? Noi  invece dovremmo sentirci aiutati dal lavoro del giornalista che evidenzia  le criticità. L’informazione dovrebbe fungere da sentinella, e deve essere vissuta non come un fastidio, anzi. Dovremmo dire “grazie a Dio” l’informazione mi apre gli occhi dinanzi ad una situazione indegna e mi consente di restituire dignità a tutti.


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21