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Giorgio Ambrosoli e l’Expo 2015. Manette a Milano, etica a Modena

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di Lorenzo Frigerio 

Per uno di quegli strani scherzi che il destino è solito giocare, può capitare che le notizie di cronaca si sovrappongano inaspettatamente alle vicende storiche, creando così un mix indigesto. Può derivarne una sorta di straniamento, una sensazione di spiacevole déjàvudal quale è però possibile uscire, recuperando le giuste distanze, al punto di trarne insegnamenti utili.

Ieri pomeriggio è proprio quanto mi è successo e che, forse, anche altri hanno vissuto in silenzi, mentre erano in ascolto, nella penombra di un teatro a Modena.

Sono partito da Milano in mattinata, poco dopo la notizia degli avvenuti arresti in relazione alla turbativa degli appalti relativi ad Expo 2015 e del fermo dell’ex ministro Scajola, per arrivare tempo dopo proprio a Modena.

Qui era stato programmato un seminario formativo rivolto ai dottori commercialisti del locale ordine professionale. Si era stabilito di offrire un’occasione di riflessione e formazione professionale agli iscritti, a partire dalla lezione di una figura specchiata del nostro Paese, l’avvocato Giorgio Ambrosoli, il liquidatore della Banca privata italiana di Michele Sindona, passato alla storia come un bancarottiere al servizio della mafia siciliana, anziché come “il salvatore della lira”, nella definizione che di lui diede Giulio Andreotti.

Per parlare alla folta platea di Giorgio Ambrosoli, avevamo invitato il figlio Umberto, avvocato anche lui e impegnato da un paio d’anni in politica, come consigliere della Regione Lombardia.

Poco prima dell’inizio c’è stato giusto il tempo di commentare quanto stava avvenendo proprio in quelle ore nel nostro Paese, con il tintinnare delle manette ai polsi di eccellenti personalità che sembra far presagire una nuova Tangentopoli.

Durante i saluti istituzionali del sindaco Giorgio Pighi e del presidente dell’ordine Alberto Clò, la sala si è andata lentamente riempiendo e appena è sceso il buio in sala, il brusio è venuto meno e i cinquecento convenuti si sono disposti a seguire il filo del racconto.

Potenza delle immagini o forza della storia, non appena sul grande schermo sono comparsi i volti di Sindona e Ambrosoli e la narrazione delle vicende che li hanno visti protagonisti si è dipanata, per i presenti è stato come ricevere una botta nello stomaco.

Si stava parlando di qualcosa successo più di trent’anni fa o si stava invece parlando di oggi?

Era poi vero che il viluppo di relazioni pericolose tra finanza, politica e criminalità organizzata era qualcosa definitivamente archiviato con la scomparsa del finanziere di Patti o piuttosto non c’era un filo rosso ad unire quelle vicende a quelle che la cronaca ci stava buttando brutalmente sotto gli occhi nelle ultime ore? E quale era il nesso tra etica e sacrificio, forse la cifra più alta dell’uomo e del professionista di nome Giorgio Ambrosoli, la cui limpida lezione può servire ancora molto alle generazioni presenti?

A vincere quella situazione di straniamento che forse ha presto molti dei presenti, compreso sicuramente il sottoscritto, ad aiutare a trovare una risposta a queste domande sono stati proprio i lucidi interventi di Umberto Ambrosoli.

Nel ricostruire con parole semplici il vorticoso giro messo in piedi da Sindona per truffare i risparmiatori prima e salvarsi poi alle spese dello Stato, Ambrosoli ha messo in evidenza l’inefficienza dei controlli, la mancanza di etica professionale e, infine, anche le collusioni della politica e la violenza della criminalità mafiosa.

Ancora oggi questi elementi costituiscono le minacce più attuali per la nostra convivenza. Possono essere cambiati i nomi, possono essere cambiati i meccanismi – una volta si rubava per il partito, oggi si ruba per il proprio tornaconto, o forse no – ma è pericoloso illudersi, se non si recupera, tutti insieme, secondo le proprie responsabilità, il senso di appartenenza ad una collettività, ad una patria, ben più ampia del proprio particolare orticello.

E nel ribattere alle parole di Nino Sindona, figlio del finanziere, che appariva con la sua strampalata versione dei fatti in uno dei filmati e citava a giustificazione delle azioni del padre la machiavellica conclusione – “Il fine giustifica i mezzi” – il figlio dell’avvocato milanese, ucciso l’11 luglio 1979 sotto la propria abitazione, ha spiegato che vi è un’eticità dei mezzi che proprio il professionista è chiamato a mettere in campo, richiamando poi anche la necessità di una nuova stagione di impegno al servizio del Paese.

Momenti di grande commozione tra i presenti vi sono stati al ricordo degli affetti familiari, quando si è potuto ascoltare la lettera testamento che Ambrosoli scrisse alla moglie nel 1975 accompagnata dalle immagini del film di Michele Placido “Un eroe borghese”, tratto dall’omonimo romanzo di Corrado Stajano.

Parole che spiegano meglio di tante altre come per Ambrosoli quell’incarico rischioso abbia rappresentato “un’occasione unica di fare qualcosa per il paese” e anche come, del tutto inaspettatamente, “a quarant’anni, di colpo” abbia potuto fare politica “in nome dello Stato e non per un partito”.

Un caloroso applauso ha salutato questo passaggio e ha avuto un effetto deflagrante, permettendo a me e ad altri di vincere quella sensazione di straniamento cui facevo riferimento.

In uno dei primi commenti della mattinata, in televisione un ex ministro, collega in un precedente esecutivo dell’ex ministro Scajola, ha sostenuto come di fronte agli arresti in corso fosse necessario prendere atto della fisiologia del sistema: vale a dire la politica decide e la magistratura interviene, se riscontra anomalie consistenti in violazioni della legge. Dopo vent’anni di polemiche sull’uso politico della giustizia verrebbe da dire, complimenti, meglio tardi che mai..

In realtà, oltre alla continuità e alla contiguità di ambienti politici e finanziari alla criminalità organizzata, ben rappresentati nella vicenda Sindona prima e in Tangentopoli poi, quello che più allarma oggi, alla luce dei fatti recenti, è la continuità culturale nell’approccio a questi problemi che sono sistemici e destinati ad un moto perpetuo, se non cambiano i meccanismi della politica.

Come cambiare allora? Con l’apporto di cittadini e professionisti che fanno la propria parte, a partire dal diritto/dovere ad informarsi, ma, soprattutto con uno, dieci, cento Giorgio Ambrosoli che fanno politica “in nome dello Stato e non per un partito”.

Da liberainformazione.org


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