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Chi perde, tv o web?

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La media ponderata dei commenti sulle recentissime elezioni europee (e amministrative) è pressoché unanime nella convinzione che la vecchia televisione generalista sia risorta e abbia vinto l’incontro-scontro con la rete. C’è, ovviamente, del vero. I dati sulle presenze dei leader sullo schermo sono impietosi, usando come metro di misura la par condicio, “asfaltata” per dirla alla moda del tempo. Tsipras ha resistito miracolosamente. Ai tre leader principali sono state attribuite le quantità prevalenti del tempo di antenna e di parola, secondo le rilevazioni di “Geca Italia”; nonché dell’audience potenziale, sulla scorta delle rilevazioni del Centro di Ascolto per l’Informazione Radiotelevisiva. Con l’unica variante del secondo posto assegnato a Berlusconi in nome dell’inerzia lunga delle larghe intese mediatiche: e del conflitto di interessi, diventato nel frattempo una vera e propria ideologia. Quindi, certamente la televisione ha avuto un ruolo assai rilevante. Tuttavia, è bene intendersi. La presunta “goleada” del piccolo schermo a scapito di Internet non c’entra niente. Intanto, perché la rete ormai conta non poco, checché se ne dica alternando enfasi e demonizzazione. Non esisterebbe alcun appuntamento elettorale senza bacheche elettroniche o capillari invii di mail. Se mai, va constatato il definitivo rovesciamento del tradizionale rapporto tra televisione e politica. Dalla dialettica più o meno fertile, si è passati all’identificazione. La politica si svolge in grande parte negli studi di una televisione, che si è fatta a sua volta direttamente discorso politico. Il resto, persino gli antichi e vituperati comizi, continua ad esistere, ma non resisterebbe da solo: senza lo specchio della Regina dei media.

Di tutto questo il principale veicolo sono i talk-show, enorme neo-genere che ha invaso i palinsesti. Un po’ per i bassi costi, un po’ per il fenomeno generale di mutazione della comunicazione politica, certo i talk battono gli altri format, fino ad apparire il nuovo centro tolemaico della programmazione. Non sono uguali, ovviamente. Anzi. Ma il modello –che solo qualche anno fa vedeva come protagonisti alternativi Bruno Vespa e Michele Santoro-  oggi è un prodotto seriale, spesso ripetitivo. Come ripetitivo è il casting politico, difficilmente vero prim’attore e piuttosto contesto scenico. Niente di nuovo sotto il sole, stigmatizzeranno i mediologi. In fondo, già nel 1988 un acuto professore dell’università del Wisconsin –Murray Edelman- scriveva “Costruire lo spettacolo politico”, in cui si anticipavano diverse tendenze esplose con l’avvento definitivo della società dell’informazione. “La connotazione di ‘innovatore’ è implicita nel termine ‘leader’, a indicare colui che intraprende un cammino originale che altri seguono o emulano….questo senso centrale del termine permea di sé tutte le azioni del leader, gli conferisce indissolubilmente l’aura dell’innovatore….”. Sembra oggi. Così, larga parte della ricerca ha messo in luce –inascoltata- quanto la politica si stesse destrutturando, ingoiata dalla società mediatica, che pensava –invece- di potere usare a sua immagine e somiglianza. Il controllore si è trasformato in controllato.

Il rodeo televisivo ha gravemente indebolito riflessione e argomentazione, sostituite da frasi apodittiche, scollegate di sovente da qualsiasi visione progettuale. Insomma, la mutazione antropologica è avvenuta. E qui, per citare Gaber, non si capisce dov’è la destra e dov’è la sinistra. Chissà se vincitori e vinti ne terranno conto e si sottrarranno all’avvento del “partito unico televisivo”.

*  “il manifesto” mercoledì 28 maggio


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