Per capire meglio il ruolo storico di Enrico Berlinguer, credo che non si possa fare a meno di ricordare alcuni tratti di una crisi che si è aperta negli anni settanta e che ancora oggi, a distanza di un quarantennio, non si è ancora del tutto risolta: una crisi grave, e per molti aspetti finale, dell’Italia come repubblica dei partiti e che da inizio a una transizione dominata dal populismo mediatico e da un’opposizione di sinistra che ha molta difficoltà a formulare un’alternativa efficace e vittoriosa.
E’ questo il periodo nel quale, dopo il fallimento della politica intrapresa – sia pure con ottiche differenti – da due uomini politici di grande spessore come Aldo Moro per la Democrazia Cristiana e Enrico Berlinguer per il Partito Comunista per introdurre un accordo temporaneo e arrivare quindi a una “democrazia compiuta”, si affermano invece governi di pentapartito con Craxi e con De Mita e quindi si arriva alla crisi degli anni Novanta che segna la fine del vecchio sistema politico e l’ascesa del leader populista Silvio Berlusconi destinato a dominare, tra alterne vicende, fino al primo decennio del ventunesimo secolo. (1).
Oggi dobbiamo ancora constatare che nella lotta politica continuano ad essere caratteristici, a sinistra come a destra, la scarsa presenza di dibattito politico, la prevalenza degli obbiettivi privati e personali da parte di gran parte della classe politica, costumi nettamente oligarchici, in cui non esiste tuttora, nella maggioranza degli eletti, nè una missione del servizio pubblico nè una concezione che si richiami a idee per il futuro che riguardino tutta la comunità nazionale. Da questo punto di vista, mi sembra di poter dire che l’esperienza politica di Enrico Berlinguer, pur con tutte le contraddizioni e gli obbiettivi non raggiunti, rappresenti ancora oggi una lezione importante, partendo prima di tutto dalla centralità di un doppio binomio che è stato accantonato anche da una gran parte di quelli che si sono proclamati suoi eredi. Intendo parlare in primo luogo del binomio etica-politica, che è il solo strumento che genera veramente un consenso generalizzato nelle masse popolari e non costringe un governo a governare soltanto con la forza, cosa peraltro impossibile e foriera di crisi continue; ma, allo stesso tempo, salvaguarda la dignità e di quelli che governano come di quelli che sono governati.
L’altro binomio, che oggi è abbandonato anche a sinistra, è quello tra politica e cultura e che è , a sua volta, il solo strumento che consente alle forze politiche davvero democratiche di ricostruire una nuova visione del mondo che non può essere nè la riproposizione di ciò che è stato il mondo fino al 1989 nè può essere sostituito -come oggi accade spesso – da un generale pragmatismo disposto a tutto, pur di ottenere e mantenere il potere. Berlinguer ha insegnato per alcuni anni alla sinistra la necessità della strategia accanto alla tattica perchè, a mio avviso, egli ha sempre posto la strategia al di sopra della tattica. Le sue scelte fondamentali – se pensiamo al tentativo del compromesso storico come a quello dell’alternativa democratica – fanno parte di un medesimo percorso e seguono il difficile cammino del Partito Comunista Italiano che deve staccarsi sempre più dal modello del comunismo sovietico in un mondo ancora retto dalla guerra fredda tra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti di America.
Di tale distacco Berlinguer, nel 1981, al momento del colpo di Stato in Polonia del generale Jarulzewski, compì un primo passo importante anche se ancora insufficiente, a rompere quel “rapporto di ferro” difficile e tormentato con il comunismo sovietico che aveva caratterizzato tutto il periodo precedente. Dopo il fallimento del tentativo di compromesso storico, seguito al rapimento e all’assassinio di Aldo Moro e al mutamento degli equilibri interni al Partito cattolico, nel momento in cui formula in maniera ancora generale la strategia dell’alternativa democratica, non è soltanto il più fermo oppositore della deriva corruttiva, fallimentare, del Partito socialista di Bettino Craxi ma cerca, sia pure con indicazioni ancora generali, una strada nuova sul piano dei contenuti politici e culturali. Il suo modo di parlare della questione morale in Italia nasce soprattutto in relazione al panorama offerto dalle classi dirigenti di governo di fronte al terremoto nel Mezzogiorno del 1980. “Uno spettacolo – scrive in quei giorni Eugenio Scalfari, fondatore e direttore di un importante quotidiano italiano – miserevole e terribile.” Questa reazione di Berlinguer si traduce apertamente in un atto di accusa contro la degenerazione dei partiti e delle pubbliche istituzioni e prosegue ininterrotta fino alla sua morte, negli ultimi quattro anni di vita fino al tragico comizio di Padova che nè segnò la fine improvvisa.
Chi ancora oggi rivaluta la capacità di innovazione e di modernizzazione dei governi di pentapartito, in particolare del lungo governo Craxi, deve fare i conti con le scelte di Berlinguer, perchè il sistema di potere socialista in quel momento era fondato su una visione cinica della politica, espressione non di partiti di massa ma di oligarchie politiche che non avevano un rapporto effettivo con le masse popolari e non applicavano metodi democratici. E’ vero che mancò, da parte di Berlinguer, una proposta compiuta sui modi necessari per riformare i partiti e le istituzioni ma Berlinguer fu lasciato solo, dentro e fuori il suo partito(2) e, in ogni caso, fu l’unico politico italiano a intuire che la questione morale sarebbe diventata a poco a poco uno dei problemi centrali della transizione italiana.Vale la pena di ricordare una sua dichiarazione, rilasciata la sera di martedì 25 novembre 1980, quando divennero chiare le conseguenze del terremoto in Campania e Basilicata, poichè contiene elementi che dopo di allora si accentueranno in Italia di fronte ad ogni lutto o sciagura: “Il dramma del terremoto – disse quella sera Berlinguer – che sopravviene sconvolgente in un momento di profondo turbamento per l’intreccio degli scandali e dei torbidi intrighi di potere, accresce all’estremo nella coscienza dei cittadini l’esigenza di una svolta che garantisca onestà, correttezza e prestigio nella guida del paese e che dia alla nazione una direzione politica autorevole e capace di rinnovare la società e lo Stato”. La seconda indicazione di Berlinguer è la consapevolezza che i partiti, da soli, non possono risolvere i problemi della crisi politica italiana. Di qui i suoi interventi, più volte ribaditi, sulla necessità di allargare il campo delle forze che devono collaborare al rinnovamento e al risanamento del paese.
Alla fine del 1982 Berlinguer dichiara di avvertire la crescita di un divario tra notevoli strati della popolazione e i partiti, e dice questo quando il PCI ha quasi il 30 per cento dei consensi elettorali. Ci sono oggi, come dieci anni fa, partiti che non arrivano neppure o superano di poco il venti per cento dei consensi e dicono di rappresentare le masse popolari italiane. Berlinguer si rende conto allora dell’avanzata di una democrazia formale, quella che è stata definita come la “democrazia dei consumi” o ancora meglio come “la democrazia senza democrazia” che ha nei mezzi di comunicazione di massa, e in particolare nei canali televisivi, i suoi principali strumenti e che gioca quasi esclusivamente di rimessa di fronte all’attacco della destra berlusconiana. Tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta, Berlinguer insite sull’entrata in scena e sulla presenza incalzante di nuove forze, nuove masse popolari, di nuove aree sociali come le donne, i giovani, i giovanissimi, gli emarginati di ogni condizione, destinati a far sentire le proprie aspirazioni ed esigenze che devono esser soddisfatte dalla società, dai partiti e dallo Stato.
Da questa consapevolezza della necessità di un cambiamento ormai maturo della scena politica e dell’ingresso di nuove forze sociali e di nuove categorie, Berlinguer trae due conseguenze importanti: la prima è che è necessario che il partito di cui è leader superi la sua tradizionale versione della lotta politica, la concezione per cui sono considerate degne di rilievo e di attenzione solo quelle masse e quelle organizzazioni che esprimono esigenze e rivendicazioni di tipo economico e sindacale; la seconda è che la politica è chiamata ora a considerare come suo compito diretto la soluzione di quei problemi che emergono dallo svolgersi della vita della persona e, quindi, la qualità dello sviluppo e non semplicemente il quanto della crescita. In conclusione, il segretario del PCI percepì i caratteri nuovi del tempo che si preparava ma non ebbe il tempo di immettere nel partito i germi che stavano maturando. E questo ebbe conseguenze indubbie nella fase finale della storia comunista italiana. Berlinguer lasciò una lezione importante su due aspetti fondamentali della politica italiana: la centralità della questione morale come quella del rapporto tra politica e cultura ma non trovò eredi in grado di seguire quella strada nè di coniugare adeguatamente tattica e strategia, come pure la novità dei tempi avrebbe richiesto