Nei giorni in cui gli arresti per tangenti e favoritismi nell’assegnazione dei lavori per Expo 2015 dimostrano – per usare parole di Vilfredo Pareto di un secolo fa (sic!) – che non c’è, nel nostro Paese, grande patrimonio che non derivi da illeciti connessi con «appalti governativi, opere ferroviarie o imprese pubbliche» i notabili della politica piemontese, ampiamente ripresi dalla stampa locale (e non solo), riservano i termini “pizzo”, “racket”, tangenti e minacce a ben altro. La vicenda, solo apparentemente provinciale, è assai semplice. Il 5 maggio Sergio Chiamparino, candidato del Partito democratico alla presidenza della Regione Piemonte e punta di diamante dello schieramento favorevole alla linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione, partecipa a un confronto con una selezione di imprenditori della Val Susa, organizzato da un suo compagno di partito presso un’antica cascina della bassa valle, adibita a bed and breakfast e agriturismo (a fianco del cui ingresso spicca da sempre – ironia della sorte o insipienza degli organizzatori – una sequenza di bandiere No Tav). Al confronto politico si accompagna un rinfresco evidentemente ricercato, tanto che, benché le fotografie dell’evento attestino una partecipazione a dir tanto modesta, l’organizzatore (sindaco di un paese vicino) paga alla struttura un conto di 1750 euro. Fin qui, il fatto, privo di ogni interesse per i più.
Ma qualche giorno dopo ecco la bomba, che scandalizza il candidato governatore e l’intero mondo politico piemontese e manda in fibrillazione i media, evidentemente a corto di notizie. I gestori della struttura decidono, e lo comunicano, di devolvere parte della somma ricavata al movimento no Tav, come contributo per le spese legali sostenute nei diversi processi in cui sono coinvolti suoi esponenti. Nulla di nuovo. Nei mesi scorsi una grande mobilitazione a livello nazionale ha portato alla raccolta, per quello specifico obiettivo, di oltre trecentomila euro e su tutti i siti no Tav si trovano gli estremi per analoghi versamenti. Ma questa volta nell’establishment offeso per lo sgarbo subito scattano i più classici meccanismi proiettivi: «perché mai, se non perché costretti o minacciati, i gestori della struttura versano del denaro al movimento no Tav? Ecco un evidente caso di metodo mafioso, che esige il pizzo dai commercianti!». Proprio così, e agli alti lai del candidato governatore si affiancano quelli dei suoi avversari politici contingenti (peraltro alleati nel sostegno alla linea Torino-Lione): tutti dimentichi che ben altre sono le presenze mafiose in Val Susa e che non è certo abitudine di chi è taglieggiato dichiararlo allegramente ai quattro venti… Ma tant’è! Sono infortuni che capitano a chi non conosce altra molla del proprio agire all’infuori del personale interesse.
Non ne parlerei, dunque, se non fossi colto da un improvviso dubbio e dalla necessità di una confessione. Due anni fa, con Marco Revelli, ho scritto un libro dedicato al Tav (“Non solo un treno… La democrazia alla prova della Val Susa”) e, insieme, abbiamo deciso, dandone atto nel colophon, di destinare al movimento no Tav i diritti d’autore. E dunque mi pongo la domanda: sono anch’io un “taglieggiato”, magari – come a volte accade – a mia insaputa o, essendo soddisfatto della mia scelta, plagiato da una sorta di sindrome di Stoccolma in versione valligiana?