La libertà di stampa è sancita dall’articolo 19 della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. E per la ventesima volta l’Onu proclama la giornata mondiale dedicata a un diritto essenziale per una società democratica e per garantire la protezione di tutti gli altri diritti umani. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, e il direttore generale dell’Unesco, Irina Bokova, nel proclamare la ricorrenza in un comunicato congiunto hanno voluto ricordare che la libertà di stampa “ha bisogno di un ambiente sicuro, nel quale tutti i giornalisti possano parlare apertamente senza timore di rappresaglie”. Si tratta dunque di rinnovare l’impegno per salvaguardare gli operatori dell’informazione sottoposti a minacce, violenza e intimidazioni, mentre i loro omicidi nel novanta per cento dei casi restano impuniti. “Bisogna agire in maniera decisa” hanno affermato i massimi funzionari dell’Onu “per tutelare la libertà di espressione e la sicurezza di ogni giornalista, in ogni Paese”. Un rischio aumentato oltretutto dalla diffusione dell’informazione sui canali digitali.
I numeri sono da autentica strage: negli ultimi cinque anni sono morti 609 reporter. Per conflitti interni e per guerre vecchie e nuove. E’ una media allucinante: 122 giornalisti uccisi ogni anno, uno ogni tre giorni. L’anno scorso ne sono morti 129, quest’anno siamo già a quota 35 più una decina di bloggers. L’ultima vittima appena due giorni fa nella Repubblica Centroafricana: il direttore del quotidiano “Le démocrate”, Désiré Sayenga, torturato fino alla morte nella sua casa di Bangui, teatro di furiosi scontri fra cristiani e musulmani. In un’altra azione di rappresaglia i musulmani hanno gravemente ferito Rene Padou di Radio Voice. Ma i Paesi più pericolosi in questi primi quattro mesi dell’anno sono Siria e Iraq, con cinque morti. E se era logico pensare a una guerra in pieno atto, certamente meraviglia che sul territorio irakeno si continui a morire a undici anni dall’inizio del conflitto. Medesima considerazione vale per l’Afghanistan al secondo posto in questa drammatica classifica con quatto vittime insieme al Pakistan e a quel Brasile luogo del desiderio per il turismo ma di una violenza inaudita. Seguono Messico e Ucraina. E poi altri nove Paesi con una vittima ciascuno. E non soltanto locali, come quella ragazzina di Mayada Achraf uccisa nel suo Egitto in fiamme. Come non ricordare il sacrificio di chi perde la vita per raccontare le guerre degli altri come lo svedese Nils Horner e la tedesca Anja Niedringhaus in Afghanistan o il canadese Ali Mustafa in Siria.
Ma non ci sono soltanto i morti a fare del giornalismo di frontiera uno dei mestieri altamente a rischio. Ci sono attualmente 350 reporter in prigione: 100 in Cina, 40 in Iran e in Siria, 30 in Eritrea. Per non parlare dei rapiti. Una lunga lista che spesso è difficile seguire. L’anno scorso i sequestri certi sono stati quasi novanta. La complessa situazione in Siria e in Ucraina ha sicuramente aumentato il fenomeno. E poi i minacciati, i pestati, gli esiliati. Un momento per l’informazione del mondo mai difficile e rischiosa come in questo momento.