Il pomeriggio di 22 anni fa 400 chili di tritolo furono fatti esplodere sotto l’autostrada che dall’aeroporto conduce a Palermo. Morirono Francesca Morvillo, Giovanni Falcone, Vito Schifani, Rocco Dicilio e Antonio Montinaro. I mafiosi detenuti all’Ucciardone festeggiarono alla notizia dell’avvenuta strage. A loro modo di vedere quel sangue cominciava a “pareggiare i conti” con uno Stato divenuto ingrato. Uno Stato che ormai li colpiva nel patrimonio (legge La Torre), li condannava all’ergastolo, non in quanto fosse provata la loro partecipazione diretta agli omicidi ma in quanto “capi” di “Cosa Nostra” e, dunque, mandanti di quei crimini. Bisognava fermarla, quella follia “comunista”, che ormai aveva contagiato magistrati come Falcone, politici come Martelli, che invece di ripudiare, da garantista, “lo schifo del maxi processo” aveva addirittura chiamato Falcone al ministero, e persino Andreotti, nel cui nome “I Corleonesi” ritenevano di aver reso molti “servizi” allo Stato.
Scusate se la racconto così, la strage. Dal punto di vista dei “cattivi”. Ma mi serve per uscire dal labirinto di parole che rischiano di perderci. “Terzo livello”, “anti stato-mafioso”, “trattativa”. La mafia siciliana riteneva e ritiene di aver aiutato gli americani a liberare l’isola, di aver poi sconfitto “la peste” comunista ammazzando sindacalisti e inducendo Giuliano a sparare il primo maggio del ’47 sulla folla di Portella della Ginestra. I Corleonesi si consideravano una sorta di polizia della Mafia al servizio dei loro interessi ma anche dello Stato. Quelli che avevano fatto fuori, uno dopo l’altro, i vecchi boss, colpevoli di aver tramato contro l’ordine costituito nel 1970 insieme al Principe Junio Valerio Borghese. La mafia si considera piuttosto “Stato” che “anti Stato”. Non ha bisogno di un terzo livello, ai suoi affare sa badare da sé. Nè cerca una trattativa con lo Stato, come forse l’avrebbero voluta le Brigate Rosse. Esige solo la “giusta” mercede per i favori resi.
22 anni fa i mafiosi ritenevano di avere delle cambiali da incassare. Il 30 gennaio del ’92 la Cassazione aveva reso definitive le condanne del maxi processo, ecco che il 12 marzo un commando raggiunge l’auto con cui Salvo Lima sta andando ad accogliere Giulio Andreotti. La blocca, Lima cerca di scappare, viene inseguito, raggiunto, costretto a girarsi perché guardi in faccia la morte, ammazzato. Come Ciancimino, Lima era un politico della Mafia già dagli anni 50, ma nel 72, dopo il trauma della rivolta di Reggio e del tentato golpe Borghese, Andreotti chiamato dal tutta la Dc a ridurre il danno, assume la guida del governo e nomina Lima sotto segretario alle finanze. Il “Divo” ottiene in dote molto potere in Sicilia e tanti voti. Più chiaro di così? La cupola, ammazzando Lima, dice a Roma: ora basta! Ma nessuno sembra intendere. Andreotti, senza pagar dazio, “futtennusinni d’iddi”, rischia persino di finire Presidente della Repubblica. Ecco che Falcone deve essere ammazzato presto e non dovunque, ma a Palermo e facendo “scrusciu”, con il massimo assordante clamore. Detto fatto, quel pomeriggio di 22 anni fa.
Roma, stavolta, incassa il colpo. Entra in gioco Marco Pannella, viene eletto presidente il cattolicissimo Scalfaro. Fuori gioco Andreotti, Forlani e Bettino Craxi. Gli ultimi due saranno lasciati in pasto all’inchiesta delle “mani pulite”, il primo finirà sotto processo per Mafia, perché non c’era “pentito” che non considerasse Andreotti l’amico dei Corleonesi, l’interlocutore romano della mafia. Mentre, dopo l’omicidio di Piersanti Mattarella, i politici delle sinistre Dc sussurravano che era lui il mandante, “il vero capo della mafia”. Per un magistrato come Caselli l’obbligatorietà dell’azione penale” non si discute. A costo di restar solo.
Ma lo “scruscio dell’attentatuni” lo hanno inteso quel 23 maggio del 1993 anche i corpi separati dello Stato, i servizi segreti in competizione fra loro, gli uomini della Gladio, i collaboratori di Dalla Chiesta del tempo dell’anti terrorismo che ne avevano biasimato la crociata antimafia. Partirono diverse iniziative per “minimizzare il danno”. Per chiudere la stagione degli assassini di politici siciliani, per convincere, se non Riina ormai fuor di controllo, almeno i Graviano, signori di Porta Nuova a Palermo, che era venuto tempo di abbassare il tiro: “calati junco chi passa a china”. Una ricerca scomposta di canali di comunicazione con l’antico alleato che non accettava di pagare da solo (con il carcere duro e le requisizioni) il costo di un sistema che per decenni si era costruito insieme, Stato e Mafia.
Basta, per sconfiggere la mafia, come la ndrangheta e la camorra, bisogna combattere la cultura delle mafie. L’idea che lo Stato è debole e sostanzialmente illegittimo e dunque occorre surrogarlo con un’organizzazione illegale ma alla luce del sole, che fa affari e intanto garantisce l’ordine costituito. L’idea che lo Stato chiede le tasse ma non dà niente in cambio, mentre la mafia ti fa pagare ma ti ripaga. Con il posto che ti rifila dopo averlo ottenuto dalla Regione, dal Comune, dall’ente para statale. Consentendoti di far reddito in modo illegale, nell’ordine, sotto la sua protezione. La mafia si batte sequestrando i capitali mafiosi e trasformandoli in imprese sociali: che la gente capisca cosa si potrebbe fare senza l’intermediazione mafiosa. La mafia si combatte mettendo in galera i colletti bianchi, colpevoli di corruzione, concussione, voto di scambio, auto riciclaggio, i quali sono insieme strumento e utilizzatori finali dei crimini mafiosi, ma che non rischiano il carcere per via delle leggi a loro protezione votate negli ultimi 20 anni. L’aveva detto Falcone un quarto di secolo fa. Poi ci siamo persi nel labirinto delle ricostruzioni, delle verità giudiziarie e della ragion politica. Ed è stata questa, forse, la vera “trattativa”.