“La Conchiglia” di Mustafa Khalifa, pubblicato da Castelvecchi, è un autentico capolavoro. E’ l’arcipelago gulag del III millennio.
Un uomo, giovane laureato, commette l’errore di rientrare in patria, dopo aver terminato i suoi studi all’estero. Era innamorato, ma l’amore per la patria è più forte. Ma dal momento in cui atterra all’aeroporto del paese natio la sua vita prende un’altra piega. Quel giovane uomo pieno di speranze e buone intenzioni non sa capire perché, ma viene arrestato, torturato, internato: per 13 anni. E non lo processeranno mai.
E’ di famiglia cristiana, ma in una fase storica drammatica per lo scontro tra il governo del suo paese e il gruppo dei Fratelli Musulmani lui viene erroneamente ritenuto un “fratello”. Nessuno lo processa, nessuno gli chiede chi sia, deve solo confessare. Ma cosa? Come cosa! Lo sa, vogliono i nomi, deve fare i nomi! Non ne ha? Finisce con i piedi scarnificati, o appeso come una bestia, poi…Poi daccapo, e ancora.
Cominciano così i tredici anni nell’orrore di Tadmur, il gulag siriano dove il regime di Hafiz al Assad rinchiude i “nemici”. Il racconto di Khalifa è asciutto, dettagliato, terrificante, accuratissimo. Ti prende alla gola dalla prima pagina e ti lascia solo quando arriva la parola fine. Ma in realtà anche dopo che è finita la lettura questo romanzo resta dentro, “resta con te”. Ti ha portato nell’interminabile notte siriana, una notte che risale agli anni Ottanta, spietata. Una notte nella quale non si riesce a dormire senza il “compressore”, quella geniale creazione dei detenuti che per riuscire a stendersi in cento in una cella inventano appunto questa figura, incaricata di mettere quello grasso accanto a quello più magro,ma più vicini, i piedi del primo a ridosso della testa del secondo, ma più vicini, il sedere di a a contatto con il pene di b, ma più vicini, così che alla fine tutti e cento riescono a stendersi.
Il ritmo narrativo di Khalifa è perfetto, incalzante, tenue, i fatti asfissianti, ma non si può dire “basta”: è una tentazione costante, costantemente respinta, per il bisogno di capire fino a dove sia possibile giungere, chi siano i “fedayn”, questi strani integralisti che nell’attesa della morte si offrono alle frustate mattutine al posto degli altri detenuti puniti per atti di “insubordinazione” notturna, tipo un colpo di tosse.
“La Conchiglia” è un romanzo che ci pone davanti alla follia del Novecento nel suo volto che non abbiamo mai voluto vedere, quello de nazional socialismo siriano, della scientifica distruzione dell’uomo operata nel nome del “nazionalismo” assoluto, totale. Il viaggio che Khalifa ci offre è un pellegrinaggio nella distruzione dell’individuo operata dai totalitarismi, le cui vittime questa volta sono arabe. Khalifa è il Primo Levi del Levante. Il suo romanzo è un capolavoro assoluto, mondiale. Anche per la drammatica raffigurazione del protagonista che quando per intercessione familiare riesce ad uscire di prigione dopo essersi comunque “pentito”, anche se con una lettera di scuse che firma un familiare e non lui, non sa più vivere, non sa più interloquire, non sa più neanche soffrire. Solo fumare.