Mi piace l’idea che oggi Torino è protagonista d’importante laboratorio in previsione della nuova convenzione che, a partire dal 6 maggio 2016, regolerà il Servizio Pubblico Radiotelevisivo affidato in esclusiva alla Rai dalla Legge 177/05. Mi piace perché è a Torino che nacque ciò che oggi è la Rai. E, anche solo per scaramanzia, sarei ben felice che proprio dalla mia città (ri)partisse quel di più e di tutto che per orgogliosi decenni la Rai ha saputo dare per esempio e lustro all’europea Comunicazione. Il mettersi a lavorare fin d’ora (è già dall’anno scorso che Articolo21 ha predisposto una “nuova carta d’identità” per la Rai) è indispensabile, doveroso e necessario per chi sa quanto sia vitale il bisogno di possedere autentico servizio pubblico ed è la Rai che ha dimostrato, se vuole, di fornirci il meglio.
Quando Beppe Giulietti afferma che la democrazia si depaupera, si svilisce, cessa la sua efficacia nel preciso momento in cui l’Informazione diventa proprietà e controllo d’uno solo, coglie in pieno il significante e il significato di Servizio (non più) Pubblico. E’ (ovviamente) il sovrano che per primo deve essere edotto su ciò che avviene nel territorio di sua “proprietà” affinché questo possa interagire per accondiscendere agli eventi oppure porvi rimedio. Nel nostro Paese è il popolo (“il pubblico”) che è sovrano, da qui la semplicissima logica che dunque è il primo che ha il diritto d’ottenere informazioni veritiere e tutto ciò che segue quanto a cultura, interessi, svago e il tutto, a tutto tondo, che a questo popolo serve al fine di raggiungere quel benessere (altrimenti detto welfare) afferente il bene che accomuna tutti i cittadini, primo fra tutti la conoscenza. Ma oggi così non è (più). Vent’anni di profondissimi interessi conflittuali per berlusconismo hanno portato la nostra Rai a chinare il capo, la schiena, le ginocchia. La Rai è ormai supina ai ribaltoni di governo: è qui comando io e questa è casa mia e ne fo ciò che voglio. Niente di più contorto! L’informazione non può essere dettata da un CDA confezionato ad hoc d’interesse per pochi o addirittura uno solo. E’ impostazione a monte, in armonia e compatibile con le esigenze e il bisogno del popolo, ma ancor prima con la sua cultura.
Per queste ragioni, per quanto estremamente sintetizzate, il convegno tenutosi a Torino nell’Aula Magna del Campus Universitario, cui ha partecipato il sottosegretario allo Sviluppo Economico e delega alle Telecomunicazioni Antonello Giacomelli, massimi esponenti della comunicazione, docenti dell’Università di Torino, dirigenti Rai e Commissione Vigilanza, l’Usigrai, Articolo21, la Head of Strategy for Media alla European. L’elemento predominante che ha accomunato gli oratori è la determinazione a rifondare la Rai (nuova carta d’identità, appunto) garantendole un quadro istituzionale che ne preservi l’indipendenza, fornendo al pubblico trasparenza e garanzia nell’interagire, operare con e per i cittadini, restituendo loro il diritto di scegliere, decidere, giudicare: lo share è naturale ambizione, non può essere ossessione per business di pochi, come oggi invece pare che sia. Il fatto che il canone venga inteso come una subdola tangente non fa che confermare che il pubblico si sente solo succube.
Tutti gli operatori presenti, in tal senso hanno considerato che per il rinnovo della Convenzione è indispensabile procedere con ampie consultazioni che coinvolgano prima di tutto la scuola, le università, le associazioni culturali, i dirigenti e i dipendenti della Rai, ma non solo: anche le forze intellettuali più vivaci dell’industria audiovisiva, dell’editoria, del web (produttori, sindacati, scrittori, giornalisti ecc.).
Molto positivo (soprattutto portatore di speranza, forse per la prima volta nella storia) l’intervento del sottosegratario che ha concordato sul metodo e conseguente percorso per raggiungere l’obiettivo comune, aggiungendo che è indispensabile che l’Istituzione se ne faccia seriamente carico. Per togliere qualunque dubbio sommessamente ricordiamo che si sta parlando di Servizio Pubblico e come tale dobbiamo pensarlo e agire, altrimenti , se non ci sta (più) bene, chiamiamolo almeno in altro modo.