Rwanda vent’anni fa.
Ottocentomila vittime in 100 giorni stando alle stime più contenute, un milione settantunmila secondo altre fonti. Vent’anni fa iniziava il genocidio ruandese.
L’aereo presidenziale con a bordo Juvénal Habyarimana – al potere, con un colpo di Stato, dal 1973 – viene abbattuto da un missile terra-aria, mentre il presidente è di ritorno da un colloquio di pace insieme al presidente del Burundi Cyprien Ntaryamira. Lo stesso giorno i leader politici e il movimento radicale Hutu Pawer accusano dell’attentato i ribelli tutsi del Fronte Patriottico Ruandese-Fpr, guidati da Paul Kagame. Alcune ipotesi indicano le frange estremiste del partito presidenziale come i responsabili dell’attentato. Sembra non accettassero l’accordo di Arusha, del 1993, che prevedeva un ridimensionamento dei poteri di Habyarimana e l’ingresso del Rwandan Patriotic Front-RPF nel governo di transizione.
Il segnale dell’inizio delle ostilità fu dato dall’unica radio non sabotata, l’estremista RTLM che invitava, per mezzo dello speaker Kantano, a seviziare e ad uccidere gli “scarafaggi” tutsi.
Per 100 giorni si susseguirono massacri e barbarie di ogni tipo. Vennero massacrate più di un milione di persone in maniera pianificata e capillare. Uno dei massacri più efferati fu compiuto a Gikongoro, l’allora sede dell’istituto tecnico di Murambi: oltre 27.000 persone vennero massacrate senza pietà. Per dare un’idea sommaria di quello che avvenne, basti pensare che in un giorno vennero uccise circa ottomila persone, con una media di 333 l’ora, 5 vite falciate al minuto. Pochi giorni c’era stato il massacro della Nyarubuye Catholic Church, con migliaia di vittime. Sembra ancora di udire di sottofondo non solo le grida dei carnefici e delle vittime, ma anche la famosa radio incitante ad uccidere i vicini. Forniva indicazioni ogni giorno, anche quello del massacro di Kibuye quando 12 mila tutsi vennero uccisi nello stadio di Gatwarp, dove avevano cercato rifugio. Quello stesso 18 aprile sulle colline di Bisesero si contavano più 50 mila.
Il grosso del massacro non avvenne per mezzo di bombe o mitragliatrici, ma con il più rudimentale strumento di lavoro e morte, il machete. Questo non perché non ci fossero abbastanza fucili d’assalto AK-47, bombe di mortaio, lanciarazzi, granate e munizioni – inchieste della BCC, del The Guardian e del Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda-ICTR, dimostrano un traffico di armi considerevole – ma perché si trattava di uno strumento già in possesso di tutti, bastava solo darne una destinazione d’uso diverso.
Il genocidio ruandese ebbe termine nel luglio 1994 con la vittoria del RPF nel suo scontro con le forze governative. Giunto a controllare l’intero paese l’RPF attuò un contro-genocidio che aggravò ulteriormente la situazione umanitaria, comportando la fuga di circa un milione di profughi Hutu verso i paesi confinanti Burundi, Zaire, Tanzania e Uganda.
Il nazismo tropicale aveva trovato terreno fertile, in una terra che prima del colonialismo non aveva posto attenzione alle differenze somatiche, ma con l’introduzione della carta di identità delle autorità belghe, lo status sociale che era alla base della differenza tra hutu e tutsi (il possedere o meno capi dio bestiame) divenne una questione etnica. Le rivolte per l’indipendenza contro i coloni belgi e la monarchia Tutsi, aprì le porte al primo sterminio di oltre 100.000 Tutsi e alla loro emigrazione in Uganda e Burundi. Nel 1966 in Burundi, una serie di colpi di stato alimentati dalle due etnie, si conclusero con la presa del potere da parte dell’aristocrazia Tutsi. Nel ‘72, un tentativo di colpo di stato Hutu portò alla reazione violenta del governo, con lo sterminio di 200.000 Hutu. Nel 1973 in Ruanda, ci fu il colpo di stato del generale Hutu Juvénal Habyarimana e iniziò il regime autoritario. I media locali, come il Kangura – riconosciuto colpevole dal Tribunale internazionale per il Rwanda, di incitamento all’odio razziale – pubblicarono articoli come i Dieci Comandamenti, in cui si asseriva: Ogni MuHutu deve sapere che ogni MuTutsi non cerca che la superiorità della sua razza.
Tra l’indifferenza internazionale iniziò il secondo più grande genocidio della storia. Eppure forse era prevedibile. L’11 gennaio del 1994, quattro mesi prima dell’abbattimento dell’attentato presidenziale Romeo Dallaire, comandante delle forze Onu in Rwanda – UNAMIR, invia un fax in cui afferma di aver saputo da una “fonte di alto livello” che le milizie hutu Interhamwe stanno pianificando “lo sterminio dei tutsi”. La Comunità Internazionale resta attendista.
Rwanda vent’anni dopo.
A vent’anni dalle stragi che decimarono il Ruanda, un nuovo conflitto settario insanguina il cuore dell’Africa. L’Onu parla di genocidio. 510mila profughi, tra un anno forse non ci saranno più mussulmani nella Repubblica Centro Africana
Il Rwanda di oggi resta un paese poverissimo ma in crescita esponenziale, e con tanti problemi. Come in tutti i casi di guerra civile, e ancor più nei genocidi, resta l’odio, così come restano i vicini di casa genocidari. El Mundo ha raccontato la storia di Alfred e Donata, lui tutsi, lei hutu. La figlia di un carnefice sposa del figlio della sua vittima. Fin da piccoli abitavano nello stesso villaggio, Kamembe, erano amici poi il padre di Donata si unì al gruppo di guerriglieri che uccise il padre di Alfred e altri membri della sua famiglia. Il loro matrimonio è vista come una relazione contronatura, ma Alfred ha avuto la forza di perdonare il suo carnefice, condizione posta dai tribunali popolari rwandesi per concedere agli assassini di uscire dal carcere. Storia di riconciliazione ma nel Paese la tensione resta. Anche perché il Tribunale Penale Internazionale – con 49 condanne e 14 assoluzioni- è stato chiamato a giudicare i maggiori responsabili del genocidio, per questo non ha portato a giudizio la maggior parte degli autori materiali delle violenze.
Come affermato, da Yolande Mukagasana – scrittrice tutsi e sopravvissuta grazie all’aiuto di una donna hutu al massacro di 32 suoi parenti – non bisogna mai abbassare la guardia, e oggi la tragedia della Repubblica Centro Africana ne è un drammatico esempio: genocidio etnico-religioso.
“Quanti musulmani rimangono oggi in Repubblica Centrafricana? Quanti ne resteranno domani? I musulmani rimanenti sono stati disarmati e rinchiusi nel loro ghetto senza difesa né protezione”. E le organizzazioni umanitarie spesso “invitano a difendere il Corano”, ha dichiarato Yolande, un mese fa nel corso della cerimonia per la Giornata Europea dei Giusti: “Diamo priorità ai musulmani, non al Corano! Ai testimoni, non ai libri sacri! Il Corano non recherà traccia dell’orrore odierno che si consuma ancora una volta in Africa, il continente più ricco, abitato dalle persone più povere”. “Si vogliono ripetere le Crociate?”