La foto di Anja Niedringhaus, 48 anni, che noi tutti ricordiamo è questa: in un istante era riuscita a immortalare la disperazione e il disorientamento delle ore appena successive all’attentato di Nassirya. La ricordo perfettamente sul teatro della strage, noi appena arrivati come lei, con il fiato in gola da Baghdad e subito impegnati nella interminabile serie di dirette televisive; lei fotocamera in mano aggirarsi alle ricerca di quello scatto che sarebbe comparso il giorno dopo su tutti i giornali italiani e del mondo. Nella cruda luce dei gruppi elettrogeni lo scheletro della base Maestrale che tutti però chiamavamo con il soprannome di Animal House nel pieno centro di Nassirya, la mano del caporal maggiore capo Mattia Piras diventato così il simbolo vivente della strage. Quel militare che con lo sguardo basso, come impotente davanti a quel cratere, davanti alle rovine spettrali della palazzina sventrata. Ma Arja aveva continuato a scattare sino a guadagnarsi il Pulitzer.
Oggi Anja è stata uccisa a Kwost, nella turbolenta zone di confine con il Pakistan. Una uccisione a sangue freddo che segue di pochi giorni quella di Ahmed Sardar della France Presse nel ristorante dell’hotel Serena di Kabul e quella del corrispondente dalla radio svedese per strada a Kabul. I talebani vogliono così convincere i giornalisti indipendenti che non sia più possibile raccontare il paese proprio nell’anno delle elezioni presidenziali e nel periodo più delicato della fase di transizione? L’omicidio di Anja da parte di un uomo vestito da poliziotto lascia molti interrogativi su chi ci sia dietro quell’uomo vestito da poliziotto. Una nuova domanda che chiede risposta, chiede di indagare sul torbido incrocio di interessi che spesso lega i potentati locali alla corruzione, al traffico di droga, al doppio gioco con i talebani.
Intanto non resta che unirci, a tutti i colleghi italiani e internazionali che la conoscevano e la stimavano, al dolore dei suoi cari. Addio Anja.