Il ddl Renzi prevede la sostituzione del Senato della Repubblica con una camera delle autonomie composta dai Presidenti delle Regioni e delle province autonome di Trento e Bolzano, dai sindaci dei capoluoghi di Regione e di provincia autonoma, “nonché, per ciascuna Regione, da due membri eletti, con voto limitato, dal Consiglio regionale tra i propri componenti e da due sindaci eletti, con voto limitato, da un collegio elettorale costituito dai sindaci della Regione”. A questa composizione, che in fondo garantisce una certa omogeneità per le ragioni che dirò, possono aggiungersi fino a 21 cittadini nominati – per restare in carica 7 anni – dal Presidente della Repubblica per gli stessi meriti che oggi consentono la nomina di cinque senatori a vita. Prima le osservazioni più semplici. La previsione di 21 senatori di nomina presidenziale su un numero base di centoventidue senatori (se non ho sbagliato i calcoli) è spropositata ed ingiustificata, aggravata dalla circostanza che il loro inserimento è del tutto facoltativo nell’an e, dobbiamo supporre, nel numero, comportando un’eccessiva flessibilità nella valutazione dei requisiti di omogeneità dell’organo. A non voler pensare male circa la pretesa di comporre forzosamente un partito del Presidente – dequalificandone il ruolo di rappresentante dell’unità nazionale e di garante costituzionale della dinamica politica – o, peggio, una riserva di seggi nella disponibilità di una nuova classe di notabili della Repubblica. Interessante, poi, la notazione per cui i senatori a vita in carica alla data dell’entrata in vigore della legge costituzionale – a norma dell’art. 33, comma 9, delle Disposizioni transitorie del ddl – permarrebbero nella stessa carica quali membri del nuovo Senato delle autonomie. Avremmo, quindi, comunque alcuni senatori a vita seppur, come dire? ad esaurimento. Questi ultimi manterrebbero i privilegi ed i diritti quesiti tipici del vecchio regime, compresi indennità e vitalizi? Altra considerazione. Il Senato delle autonomie, composto da soggetti provenienti da altre istituzioni e titolari delle relative cariche elettive, perderebbe la natura di organo permanente. Ed il Presidente e l’Ufficio di Presidenza del nuovo Senato, saranno anch’essi organi non permanenti?
Certo del tutto insensata appare, nella logica della trasformazione del Senato in camera delle autonomie, la disposizione di cui all’art. 67 che continua a far riferimento, come se nulla fosse, al “Parlamento”, prevedendo un divieto di mandato imperativo anche nei confronti di senatori, organi delle Regioni e dei comuni che, a questo punto, non si capisce cosa più debbano “rappresentare”. Lo stesso riferimento alla durata del loro mandato, che ai sensi del nuovo art. 57 “coincide con quella degli organi delle Istituzioni territoriali nelle quali sono stati eletti” rende palese la denotazione del loro carattere rappresentativo come derivazione della loro provenienza istituzionale, cosa difficilmente conciliabile – e devo aggiungere, niente affatto credibile – con il divieto di mandato imperativo.
La inadeguatezza della riflessione e la superficialità della compilazione del nuovo modello parlamentare – del resto propagandato con esclusivo riferimento alla riduzione dei costi – è forse alla base dello scarso coordinamento del testo del ddl con la pur recentissima riforma degli artt. 81, 97, 117 e 119 della Costituzione, introdotta – come è noto (anche al Governo?) – con l. cost. n. 1 del 2012 ed intitolata “Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale”. Questa riforma, al di là della pur complessa vicenda dei vincoli sui bilanci pubblici, prevede infatti una corresponsabilità con lo Stato, da parte degli enti regionali, nell’assicurare il rispetto dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’UE nonché la ben più complessa responsabilità delle medesime Regioni nell’assicurare il rispetto degli equilibri di bilancio “per il complesso degli enti di ciascuna Regione” (art. 119, commi 1 e 6). A ciò si aggiunge quanto disposto dall’art. 5, comma 1, lett. g) della l. cost. 1 del 2012, con riferimento alla legge di attuazione, che ad essa rinvia la definizione delle “modalità attraverso le quali lo Stato, nelle fasi avverse del ciclo economico o al verificarsi degli eventi eccezionali…ecc., anche in deroga all’art. 119 della Costituzione, concorre ad assicurare il finanziamento, da parte degli altri livelli di governo, dei livelli essenziali delle prestazioni e delle funzioni fondamentali inerenti ai diritti civili e sociali”.
Quanto complesse siano le questioni connesse con la definizione dei rispettivi ruoli tra gli enti coinvolti, le esigenze di coordinamento tra le Regioni e lo Stato nonché, in ambito infraregionale, tra gli enti che compongono le singole Regioni, nelle corresponsabilità individuate dalle disposizioni costituzionali risultano del tutto evidenti leggendo gli artt. 9, 10, 11 e 12 della legge n. 243 del 2012, di attuazione del nuovo art. 81 Cost., che a loro volta contengono numerosi rinvii alla legge dello Stato senza che il testo del ddl Renzi faccia a tali questioni alcun riferimento, se non per un fugace richiamo agli artt. 117 e 119 Cost. nel nuovo testo dell’art. 70, mentre il richiamo all’art. 81 è limitato al solo comma 4. La materia dei bilanci pubblici, nel contesto dei complessi vincoli europei, meriterebbe ben altra attenzione ed approfondimento, al fine di risolvere le questioni che fin da ora, evidentemente, comprometteranno l’efficace esercizio dell’autonomia finanziaria regionale e degli enti locali. Una camera delle autonomie potrebbe, infatti, diventare la sede ideale per la definizione delle corresponsabilità tra lo Stato e le autonomie nella gestione dei saldi finanziari e delle politiche di risanamento finanziario e di sviluppo, definendo anche i potenziali conflitti politici tra Regioni ed enti infraregionali, sì da evitare un inaccettabile neocentralismo regionalistico.
Il testo della riforma prevede che a dare e revocare la fiducia al Governo debba essere la sola Camera dei deputati. Non è previsto alcun passaggio, nemmeno di presentazione, da parte del nuovo Governo, dinanzi al Senato delle autonomie. Eppure si prevede, come è ovvio che sia viste le seppur residuali competenze legislative di tale organo, che “I membri del Governo hanno diritto e, se richiesti, obbligo di assistere alle sedute delle Camere. Devono essere sentiti ogni volta che lo chiedono” (art. 64, u.c.). Non sarebbe il caso di prevedere almeno un obbligo di presentazione del Governo di fresca nomina dinanzi al Senato delle autonomie in occasione del voto di fiducia alla Camera (art. 94, comma 3, Cost.)? O il programma di governo verrà ad essa trasmesso…per le vie brevi?
In relazione alla opportuna proposta di modifica di alcuni disposizioni del Titolo V della Parte seconda, una osservazione merita il ripetuto riferimento alle “norme generali” come limite della competenza legislativa esclusiva dello Stato in alcune materie (lett. g, m, n, s, u del nuovo art. 117). La soppressione della potestà legislativa concorrente, ammesso che non si tratti di un errore stante la nuova composizione del Senato, rischia così di rientrare dalla finestra nelle materie in cui allo Stato sia riservata appunto la potestà di formulare esclusivamente le “norme generali”, che certamente sono nozione distinta dai “principi generali” di cui alla vecchia potestà concorrente, ma che nella pratica attuazione rischiano di somigliargli molto, con connesso potenziale contenzioso dinanzi alla Corte costituzionale. Del tutto priva di senso poi, in un testo costituzionale soprattutto, la previsione di cui al nuovo comma 3 del medesimo art. 117 in cui la definizione della competenza residuale delle Regioni viene indicata con la formula “ogni materia o funzione non espressamente riservata alla legislazione esclusiva dello Stato…con particolare riferimento a…”. Che criterio si pensa di aver individuato? un criterio di riparto graduale? flessibile? negoziabile? arbitrabile in sede politica? o in sede giurisdizionale, dinanzi alla Corte costituzionale? o semplicemente inapplicabile? Ma a ben vedere tra gli obiettivi declamati dall’articolato titolo del ddl di revisione costituzionale non sono contemplati né l’efficienza, né la chiarezza, né la semplificazione! Infine una breve nota con riferimento all’art. 126 della Costituzione (scioglimento del Consiglio regionale e rimozione del Presidente della giunta). Il procedimento prevederebbe un parere del Senato delle autonomie, che sarebbe però in tal caso iudex in re propria. Darei, infatti, per scontata la partecipazione ai lavori, in qualità di consulenti del Presidente della Repubblica, degli stessi Presidente di Regione e consiglieri diretti interessati – politicamente e personalmente – oltre alla necessaria considerazione degli esiti che lo scioglimento del Consiglio regionale e le dimissioni del Presidente della Regione potrebbero avere sugli equilibri politici – magari sulla stessa maggioranza – del Senato.
Pur a fronte di questi rilievi, il testo della riforma presenterebbe quindi un adeguato livello di plausibilità, come fin qui evidenziato, se non fosse contaminato dal parallelo tentativo di stravolgimento della rappresentanza politica in atto con riferimento all’altro ramo del Parlamento – alludo, come è ovvio, al progetto di riforma delle legge elettorale già approvato alla Camera (il 12 marzo 2014, AS 1385) – . Clausole di sbarramento e premio di maggioranza abnormi e liste bloccate. Tre vizi di legittimità che, oltre ai difetti di funzionamento dei meccanismi di traduzione dei voti in seggi già denunciati dalla più attenta dottrina, condurrebbero, contro la citata decisione della sentenza della Corte costituzionale, a comporre un’assemblea parlamentare – a questo punto l’unica che rimarrebbe a poter essere eletta dai cittadini – non in base alle scelte degli elettori ma interamente ad opera dei partiti. Una Camera dei deputati composta da nominati dai soli partiti più forti (si stima nel massimo di 3); un partito di maggioranza relativa che, sostenuto da alleati in coalizione che non otterranno seggi per sé – ma che contribuirebbero a far raggiungere la soglia di accesso al premio di maggioranza alla lista leader della coalizione – consentirebbero ad un partito del 25% di ottenere più della maggioranza assoluta dei seggi, distribuiti ad libitum tra candidati-nominati dalla propria segreteria. Ed ora un Senato anch’esso non più elettivo. Tutto cospira ad una mortificazione della rappresentanza politica. A fronte di ciò la soglia della maggioranza assoluta dei voti quale quorum di garanzia (di cui agli artt. 64 e 70 riformulati dal ddl Renzi) nonché insensata sul piano giuridico formale appare addirittura fraudolentemente ipocrita sul piano politico. Per tacere del fatto che le inchieste parlamentari potranno essere esclusivamente inchieste di maggioranza, sottraendosi questa potestà alla seconda camera o alla sede bicamerale, per riservarne l’istituzione alla sola maggioranza politica (ipocritamente ancora, di maggioranza assoluta parla anche il novellato art. 82 Cost.).
E’ necessario scomodare “i professoroni” per denunciare il rischio di superamento del regime democratico-rappresentativo? O non è piuttosto il caso di analizzare contestualmente legge elettorale della Camera e sua composizione democratica, da una parte, e nuova articolazione del Senato, dall’altra. Se è ancora di un Parlamento che vogliamo continuare a discutere?