Un anno fa, il 18 aprile del 2013, Franco Marini, candidato scelto da Berlusconi in una lista di personalità del Pd, non passava l’esame del primo voto per la carica di Presidente della Repubblica. Era l’inizio di quel corto circuito che, passando per il tradimento nel segreto dell’urna di Romano Prodi ad opera dei 101, avrebbe portato alla rielezione di Giorgio Napolitano e, poi, alle larghe intese.
Oggi il Giornale scatena Vittorio Feltri che racconta il Presidente in carica come uno stalinista, rievocando le sue infauste prese di posizione sull’invasione sovietica dell’Ungheria e poi contro il dissidente Solzenicyn. Poi accredita la storia – della quale in verità non ho trovato riscontri- di un rimborso gonfiato da Napolitano quando era parlamentare europeo. Lo accusa di aver tramato contro il governo Berlusconi, provocando l’ascesa vertiginosa dello spread, e di aver sostenuto l’amico Mancino, interferendo nelle inchieste dei magistrati di Palermo sulla trattativa Stato Mafia. Insomma Feltri, fa proprie le tesi accusatorie del libro di Alan Friedmnan in Ammazziamo il Gattopardo, conforta quelle di Marco Travaglio e strizza l’occhio a Beppe Grillo, ricordando l’impeachment a Cossiga. E colora il ritratto di Re Giorgio con il suo (di Feltri) ben noto anticomunismo.
Il Corriere della Sera titola in prima pagina. “Ho pagato un prezzo alla faziosità ma il bilancio è positivo”. Il bilancio è quello di quest’anno, secondo Giorgio Napolitano che risponde a una lettera di Ferruccio De Bortoli. Vediamo. Il Direttore del Corriere richiama le ragioni per la quali egli si unì, un anno fa, al coro di chi chiese a Napolitano di accettare un secondo mandato: “la paralisi rischiava di scivolare verso una vera e propria crisi di sistema. Nello smarrimento e nella precarietà generali, c’era dunque bisogno di «un punto fermo, un riferimento certo, un simbolo d’unità rispettato da tutti”. Nella risposta, Napolitano ripete che le larghe intese erano inevitabili, che era indispensabile “un governo di ampia coalizione, il solo possibile nel Parlamento uscito dalle elezioni del febbraio 2013, e nel sollecitare un programma di rilancio della crescita e dell’occupazione, e di contestuale, imprescindibile avvio di riforme economico-sociali e istituzionali già troppo a lungo ritardate”. Sostiene che grazie alla sua presidenza e al governo Letta “questo processo (crescita e riforme) sia sia messo in moto e di recente decisamente accelerato” (merito di Renzi?), si augura che le “revisioni costituzionali” vadano presto in porto, magari non chiudendo del tutto “al confronto verso le posizioni critiche di «alcuni costituzionalisti» cui d’altronde sono stato legato in tempi non lontani da rapporti di stima reciproca e di consuetudine amichevole” ( leggi Zagrebelsky e forse Rodotà) e si promuove a pieni voti: “Essermi «esposto» personalmente, sempre nei limiti del mio ruolo costituzionale, e aver pagato allo spirito di fazione un prezzo nei consensi convenzionalmente misurabili, non mi fa dubitare della giustezza della strada seguita”.
Il caffè ha, sui fatti, una valutazione assai diversa. Eccola in estrema sintesi. Ha sbagliato Bersani a proporre Marini. Per la nostra Costituzione il Presidente della Repubblica rappresenta l’unità della Nazione, non solo e non necessariamente il garante di un accordo tra i principali partiti rappresentati in Parlamento. Specie se questi partiti sono stati parzialmente delegittimati dal voto (Il Pd aveva perso oltre 3 milioni di elettori, il PDL ben 6). È vero che con Grillo non si poteva (né si può) trattare e nemmeno discutere, ma il profilo del Presidente proposto ai grandi elettori avrebbe dovuto essere quello di una persona almeno intenzionata a risanare la ferita tra “politica” e “opinione pubblica”. Avevo proposto Rodotà, ben prima che M5S facesse suo, strumentalmente, quel nome.
I 101 non sono stati un fenomeno misterioso, né solo il frutto di lotte fra cordate. Avevano facce, profili e intenzioni chiarissimi. Erano quella forza, dentro il Pd, che, davanti alla crisi, voleva trasformare, senza indugio, il Pd in un partito stato, un partito disposto ad allearsi pur di governare con il nemico di sempre (Berlusconi), e ben deciso a rigettare la critica della “politica”, l’idea, ritenuta utopistica e dunque dannosa, che che si potesse immaginare un diverso sviluppo economico e un’altra Europa. Dopo il tradimento di Prodi, Bersani avrebbe dovuto pretendere chiarezza nel Pd e dal Pd. Per salvare la ditta, ha invece chiesto a Napolitano di accettare un secondo mandato. E si è dimesso.
Napolitano (che non ho votato a scrutinio segreto e contro la cui indicazione ho alzato la mano nell’assemblea dei parlamentari del Pd) ha una visione profondamente errata dello storia d’Italia e della crisi che il Paese deve affrontare. La crisi del regime, la paralisi dell’economia, il crescere di corpi intermedi illegali (P2, invadenza di servizi segreti, prevalere delle mafie), derivano dalla incapacità della destra italiana (e della DC) di realizzare negli anni 70 un colpo di stato bonapartista e dalla incapacità del PCI, e poi di gran parte della sinistra, di proporre un’alternativa democratica, di combattere il neo liberismo e di proporre, prima e soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino, un Europa del Welfare, dei diritti, della cultura e della tolleranza.
Tra il 77 e l’84, quando purtroppo morì, Berlinguer avrebbe voluto correre ai ripari. Le sue parole d’ordine Alternativa, questione morale come questione politica, austerità (come embrione di un diverso modello di sviluppo) erano un grido di dolore che i Napolitano (già allora erano tanti) non solo non raccolsero ma nei cui confronti si mostrarono irridenti. Ça va sans dire, che ripescare le larghe intese 35 anni dopo sia stata, a mio avviso, prova di miopia politica e di provincialismo culturale. Non sapeva Napolitano che sarebbe scoppiata la questione giudiziaria di Berlusconi? Non si era accorto che la riserva della repubblica , Monti e i professori, avevano sprecato l’occasione che egli aveva loro offerto? Non si rendeva conto, un anno fa, che il fenomeno Grillo andava letto nel più vasto contesto di una crisi delle politica e delle istituzioni europee? E soprattutto non capiva (e non capisce) Napolitano che quando un mondo crolla la cosa più sciocca da fare è arroccarsi nel palazzo?
Temo che l’anno appena trascorso abbia radicalizzato la contrapposizione tra due Italie, che rischiano di non parlarsi più. Servizio pubblico ieri sera, con Salvini, la deputata a 5 stelle e Travaglio in studio, i blu boc in strada e, nelle interviste, la disperazione di chi vorrebbe riacchiappare per la coda una ricchezza che sta volando via dall’Occidente, ne dava testimonianza. Parziale, ma esemplare.