Gli elettori sono chiamati ad esprimersi su tre grandi temi: l’Europa dei popoli e della crescita, per la sinistra; l’Europa dell’austerità e dei tecnocrati, per la destra moderata; l’uscita dall’Europa, per la destra estrema, da Le Pen alla Lega e a Grillo. Tre modi molto diversi di rispondere al malessere popolare che investe l’Unione e le sue politiche sinora deboli e contraddittorie di fronte la crisi.
La campagna elettorale per le europee è aperta. Emergono almeno tre grandi tematiche di confronto tra gli attori in campo: l’Europa dei popoli e della crescita, per la sinistra; l’Europa dell’austerità e dei tecnocrati, per la destra moderata; l’uscita dall’Europa, per la destra estrema, da Le Pen alla Lega e a Grillo. Tre modi molto diversi di rispondere al malessere popolare che investe l’Ue e le sue politiche deboli e contraddittorie di fronte la crisi.
Del populismo antieuropeista abbiamo scritto più volte. È inaccettabile, va combattuto recuperando il consenso sociale con politiche attive per il lavoro e la crescita. Sin’ora il confronto tra kenysiani e neoliberisti ha visto prevalere questi ultimi anche nel centrosinistra, provocando danni particolarmente gravi nei paesi del sud Europa, come dimostrano le vicende greche, spagnole, italiane. Le nuove politiche di crescita presuppongono che s’intervenga non solo sulle politiche economiche pubbliche, ma anche sulle strutture istituzionali per regolare i necessari nuovi rapporti tra Stato, mercato e diritti dei cittadini europei.
È possibile auspicare un’Europa dei popoli con un Parlamento europeo che può esprimere solo indirizzi di politica economica, estera e di difesa, ma non un governo europeo con veri poteri gestionali delle politiche attive sovranazionali? È possibile continuare a prefigurare una banca centrale europea che non può stampare moneta né intervenire con un sostegno finanziario diretto verso gli Stati che devono approvvigionarsi per il loro fabbisogno sul mercato? Può mantenere la pace nel continente e nel mondo un’Europa che non ha una comune politica estera e di difesa, dopo i disastrosi effetti registrati nelle ultime crisi nel Mediterraneo, nel Medio Oriente e in Crimea? L’Europa dei popoli deve far circolare uomini, merci, capitali, idee e diritti; deve fare della sovranità popolare europea il credo assoluto che prevale sul “dio mercato” e sugli “Dei del mercato”, insensibili, pur di accumulare ricchezze, a qualsiasi sofferenza umana, cinici sino all’uso spregiudicato e alla manipolazione dei capitali sporchi di sangue della finanza criminale.
In Italia e in Sicilia tutto ciò si combina con la situazione politica di transizione in cui sono nati e vivono i governi Renzi e Crocetta, i quali, pur nella loro diversità istituzionale, politica e di maggioranze, hanno caratteri, fragilità, ambizioni comuni. Tutte due parlano della loro gestione come di una rivoluzione, annunciata e in parte avviata. Tutte due, nell’ambizioso disegno rivoluzionario, mirano a travolgere le resistenze strumentali dei conservatori, anche interni, non distinguendoli dai critici miglioratori, cioè da quelli che spingono per un processo riformatore più spinto, più democratico, più sensibile agli interessi sociali più deboli e bisognosi di tutela pubblica.
Sul piano politico, in Sicilia, quest’atteggiamento sin’ora ha accresciuto il peso dei gruppi parlamentari minori e trasformisti, ha diviso il Pd, la forza più consistente e più riformista. Si fermino tutti! Soprattutto all’interno del Pd, giunto sull’orlo del baratro, e si corregga la rotta politica!
In Italia il rullo compressore di Renzi, non privo di efficacia, non può continuare a considerare tutte le critiche migliorative alla stregua di trappole tese a bloccare le riforme la cui definizione va misurata sugli effetti di crescita dell’economia e contemporaneamente della democrazia. Tutti i critici di Renzi interni al Pd apprezzano il suo dinamismo e la sua energia, chiedono di fare meglio quello che si propone sul piano economico e istituzionale per adeguarlo al nuovo contesto mondiale e europeo non passivamente, ma con la volontà di cambiarne il corso.
Non si possono sottovalutare gli effetti del combinato disposto della riforma elettorale varata dalla Camera, l’Italicum, con la riforma del Senato proposta e la preannunciata riforma del Titolo V. Esso darebbe vita a un meccanismo tramite il quale una minoranza elettorale diventerebbe maggioranza parlamentare alla Camera di deputati, nominati dalle segreterie di partiti molto “correntizzati” e poco democratici. Il Senato, in prevalenza formato da sindaci espressioni della maggioranza del momento, non avrebbe alcun peso rilevante. In più tale maggioranza, di Camera e Senato, potrebbe eleggersi il presidente della Repubblica che le aggrada. Inoltre, l’intervento sul titolo V, ormai indifferibile anche grazie al fallimento delle classi dirigenti delle Regioni, non può riportarci a un centralismo antistorico perché in contrasto con le esigenze di autosviluppo locale dal basso come contrappeso a quello globale. D’altra parte invocare la corruzione delle classi dirigenti locali o il risparmio di denaro pubblico quando quella nazionale tra corrotti e corruttori, tra organizzatori di cenette eleganti e tangenti internazionali non può tirarsi fuori da quel processo di risanamento etico che andrà perseguito con riforme istituzionali che non vengano meno al principio, non populistico, della sovranità popolare il cui esercizio deve avvenire nelle forme previste dalla attuale Costituzione di una Repubblica parlamentare fondata su partiti democratici. Se non esistono più partiti democratici, allora ricostituiamoli!
Sulle riforme non bisogna dilatare i tempi di discussione, ma ascoltare con umiltà tutte le proposte migliorative nel senso detto. Non possiamo correre il rischio di consegnare, un domani, a un uomo non democratico, un meccanismo istituzionale che gli consentirebbe, nel rispetto della legge, di esercitare un potere antidemocratico e facilmente manipolabile per mancanza di contrappesi.
L’intera sinistra dovrebbe riflettere perché si è potuto giungere al punto di rendere accettabile qualsiasi cambiamento purché si realizzi. Le sue diatribe di potere e le infinite divisioni, i suoi tentativi di cancellare la storia della sinistra storica, di matrice socialista, laica e cattolica, senza sapere creare nuove idealità dopo il crollo del Muro di Berlino, spingono il popolo della sinistra a sperare che un cambiamento dopo tante promesse qualcuno lo realizzi, comunque si chiami purché non abbia, anche solo apparentemente, responsabilità del passato.
Riscoprire Berlinguer, dopo averlo negato e cancellato dalla memoria del paese, può essere utile, non per piangersi addosso, ma per ripensare la propria storia per guardare al futuro.