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Il “riformismo” e l’inflazione delle parole

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Come sempre accade nei periodi di disfacimento, anche in questa tristissima stagione tutto si perde e tutto si degrada: i princìpi, i valori, gli ideali, la memoria delle lotte sindacali per ottenere condizioni di lavoro meno disumane e, naturalmente, i sacrifici dei partigiani durante la Resistenza per liberarci dal nazi-fascismo e far nascere la Costituzione che – a detta di molti costituzionalisti – è “la più bella del mondo”.
Tutta retorica, tutte frasi fatte: questa è l’accusa infamante che viene rivolta a chiunque si azzardi a ricordare uno solo di questi punti, perché oramai la politica richiede un elevato livello di pragmatismo e non ci si può fermare a riflettere o a pensare a ciò che è stato, perché vanno bene i partigiani, va bene la Resistenza, vanno bene i padri costituenti, va bene tutto ma bisogna guardare avanti, al futuro delle nuove generazioni. Il che è verissimo, anzi sacrosanto, se non fosse che il futuro che hanno in mente questi signori è, per le nuove generazioni, un avvenire di fame e miseria, diritti calpestati, tutele sindacali inesistenti, stipendi che consentono al massimo la sopravvivenza, pensioni in età avanzata e ovviamente insufficienti e continui ricatti, continue vessazioni, umilianti e dannate perdite di dignità e di speranza. Il tutto in nome della modernità, delle richieste del mercato, della necessità di andare oltre, di entrare finalmente nel Ventunesimo secolo, di capire che “il mondo è cambiato e indietro non si torna”.
In qualunque altro momento della nostra storia, questi signori, con argomentazioni risibili, privi di contenuti e della benché minima credibilità, sarebbero stati messi da parte dopo pochi minuti e considerati fenomeni da baraccone; oggi, invece, pretendono di riscrivere le regole del nostro vivere civile e mietono consensi unanimi, con editorialisti che si prodigano per narrare al popolo le loro virtù e uno stuolo di servi, più o meno sciocchi, al seguito che ne tessono le lodi in maniera acritica, qualunque cosa dicano o facciano.
Come ha spiegato il professor Rodotà, sono le nuove forme, purtroppo trasversali, di populismo: un morbo che irretisce il pensiero e distrugge lo spirito critico, che annulla qualunque differenza fra destra e sinistra (differenze che, ovviamente, permangono nella società e, anzi, crescono perché, all’infuori dei palazzi del potere, le classi sociali esistono eccome) e cerca di convincere moltitudini crescenti di persone disperate ed arrese che questo pensiero unico inconcludente sia il solo modello sociale auspicabile e perseguibile. Siamo di fronte ad una palese manomissione delle parole e dei significati.
Perché, naturalmente, non è vero niente: non è vero che ci si debba rassegnare a questo declino, non è vero che si sia sempre fatto così (anzi, è vero esattamente il contrario), non è vero che questa Europa dei tecno-burocrati abbia qualcosa a che fare con quella immaginata da Altiero Spinelli sull’isola di Ventotene durante il confino cui lo avevano condannato i fascisti, non è vero che per tornare a crescere si debbano smantellare i diritti sociali e civili, non è vero che la nostra Costituzione sia antiquata, se consideriamo che quella americana compie quest’anno il suo duecentoventisettesimo compleanno e nessuno, da quelle parti, si azzarda minimamente a metterne in dubbio la vitalità e non è vero, infine, per avere un confronto pacato e costruttivo si debba annullare ogni differenza fra pensieri diversi perché così si annulla unicamente il pensiero ma le differenze restano e si trasformano in uno scontro all’ultimo sangue tra demagoghi di varia estrazione, con tanto di corti al seguito.
Allo stesso modo, non ha alcun senso il concetto di “riformismo”: parola abusatissima, inflazionata e profondamente insulsa, visto che in Italia caratterizza praticamente tutti, da Marco Rizzo a Storace, senza che qualcuno si sia ancora interrogato sulla natura di queste benedette riforme, su cosa contengano, su dove dovrebbero condurci e, più che mai, sul perché vadano realizzate esattamente in un certo modo, calpestando la Costituzione e persino il buonsenso, quando esistono mille proposte alternative di gran lunga migliori.
Per non parlare, poi, di questo folle mito della velocità e del decisionismo che in passato è stato foriero di sventure e cialtroni, costituendo la negazione stessa della buona politica e della saggia azione legislativa nonché il principale nemico del concetto di democrazia parlamentare che presuppone, per l’appunto, una lunga e faticosa discussione sui fini e sugli orizzonti di ogni singolo progetto di legge.
Infine, bisognerebbe soffermarsi a riflettere sul concetto di “responsabilità”, di per sé nobile e importantissimo ma oggi palesemente strumentalizzato, visto che non c’è nulla di responsabile nel venir meno alla parola data, nel mentire agli elettori, nel varare norme capestro che devastano la vita dei cittadini salvo poi pentirsi e tornare ipocritamente indietro, facendo finta di niente, come se nel momento di assumere determinate decisioni ci si fosse trovati all’altro angolo del mondo. No, questa è l’esatta negazione del riformismo, della buona attività legislativa e della necessità di decidere, indispensabile in qualunque democrazia ma sempre tenendo fermi quei punti che attualmente vengono considerati secondari o, peggio ancora, di nessuna importanza da una classe dirigente che sconta il fatto di essere da troppo tempo nominata e, dunque, onestamente non selezionata in base ad altri due miti traditi della contemporaneità: il merito e la competenza.
Al che, vengono in mente le parole di Gustavo Zagrebelsky, noto “professorone”, “disfattista” di professione, il quale, in un recente libretto (“Contro la dittatura del presente – Perché è necessario un discorso sui fini”), afferma: “La fedeltà ai patti collusivi può essere facilmente scambiata per ‘responsabilità’. Quante volte abbiamo assistito al richiamo, esplicito o implicito, brutale o suadente e mellifluo, al ‘senso di responsabilità’, affinché ciò che deve restare nascosto resti tale; affinché nulla si dica o si faccia per spezzare l’anello della complicità? Solo che questa responsabilità è omertà, un modo anch’esso di stare ai patti. Di che cosa si nutre la forza che fa muovere i ‘giri’? Della disuguaglianza e dell’illegalità. Essi, i ‘giri’, tanto più si diffondono quanto maggiori sono le disuguaglianze sociali e quanto meno le stesse leggi valgono ugualmente per tutti. Tanta più insicurezza e ingiustizia sociale, tanta più richiesta di ‘patronato’; tanto più patronato, tante più concrete violazioni della legge che, in astratto, sarebbe uguale per tutti”. Magari, fra dieci anni, quando questo tempo del nulla sarà in via di esaurimento o, si spera, già terminato da un pezzo, qualcuno gli darà ragione.


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