I dolori del giovane Welfare

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Il Paese conta una marea di cinquantenni e giù di lì -tra forneriani esodati e licenziati- espulsi (più o meno a calci in culo) dal mondo del lavoro  che vagano come morti viventi alla ricerca di posto perduto. Che ne sarà di tutti una volta esauriti i risparmi della (precedente) loro vita, compreso l’alloggio ereditato dai genitori (si badi: tanto furono questi integerrimi che stesso principio inculcarono ai loro figli!) che i più fortunati sono riusciti a (s)vendere, ma che altri si trovano ancora sul groppone a mo’ di seconda casa? Non ce lo raccontano per un motivo molto semplice: non fanno notizia (tolte le due righe dedicate a eventuali omicidi e suicidi da “follia familiare”), ma soprattutto creano mai problemi perché in loro ancora insiste quel dato di fatto (DNA/assunto/quasi dogma) ampiamente sfruttabile: sono tutti buoni padri di famiglia. Fino a non moltissimo tempo fa il nostro Paese teneva in seria considerazione quella locuzione da diritto romano che fa “diligenza del buon padre di famiglia”. Se uno la possedeva andava differentemente trattato dai possessori di noto DNA per furbi/cialtroni/scansafatiche/echipiùnehapiùnemetta

Oggi non più. Se uno la possiede significa che può (ancora) stare lì buonino e pertanto non frantumare le palle al (renziano) giovane welfare. 


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