Gabo Marquez, poeta umile

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Attenzione a commuovervi davanti alla bara di Gabriel García Márquez perché l’immenso scrittore colombiano era un uomo buono ma, al tempo stesso, profondamente coerente ed idealista e tutto poteva sopportare eccetto due categorie: gli ipocriti e i voltagabbana. Attenzione, dunque, a lanciarvi in commenti mielosi e dichiarazioni d’amore postume per i suoi capolavori perché amare Márquez significa accogliere, implicitamente, una certa visione del mondo e della vita. Significa, ad esempio, essere contrari ad ogni forma d’ingiustizia e di prepotenza; significa detestare l’autoritarismo e i dittatori, di qualunque colore essi siano; significa battersi dalla parte degli ultimi e degli emarginati; significa credere fermamente in un’idea di comunità solidale e di giustizia sociale e significa, soprattutto, detestare la mercificazione dei diritti e dei valori, la riduzione in schiavitù degli esseri umani e qualunque cedimento alla malvagità, alla ferocia e al cinismo.

Significa pensare che “un uomo ha il diritto di guardare dall’alto in basso un altro uomo solo per aiutarlo a rimettersi in piedi” e che ciascun popolo debba essere libero di determinare autonomamente il proprio governo e la propria sorte. E significa anche, ed è l’aspetto più importante del pensiero e dell’opera di Gabo, non sopportare nella maniera più assoluta i disillusi cronici, coloro che non riescono più ad appassionarsi e ad emozionarsi di nulla, coloro il cui unico metro di giudizio è il profitto, il successo, la vittoria, a scapito della dignità, della libertà, del benessere del prossimo, di quei valori oggi desueti e invece indispensabili per la promozione del pensiero e della persona, per l’indipendenza dei popoli, per il riscatto degli oppressi dalle catene di uno sfruttamento selvaggio e disumano.

E poi significa non rinunciare mai, per nessuna ragione, alla propria passione civile e politica, non arrendersi alle sconfitte, non rassegnarsi allo status quo e non tacere quando è il momento di gridare ma, soprattutto, non svendere la propria anima, non nascondere le proprie idee e avere il coraggio di lottare anche dalla parte sconfitta della storia, al fianco di coloro che vengono sempre considerati colpevoli, di chi non ha voce, di chi è vittima di una discriminazione malvagia e dissennata.

Infine, significa conoscere la forza, la bellezza, la maestosità delle parole, la loro capacità di elevare il genere umano, di indicare una strada diversa, di rinfrancare lo spirito e di proiettarci in un’altra dimensione, di farci osservare il mondo con occhi diversi e di consentirci di vedere le cose dalla prospettiva di un altro, magari la persona più distante e apparentemente ostile al nostro modo di pensare.

Questo è stato per tutta la vita Gabo Márquez: un idealista che non ha mai smesso di lottare per regalare alla società un orizzonte diverso e migliore, uno scrittore in grado di scavare in profondità e arrivare al cuore dei lettori ma, più che mai, un nemico giurato di despoti, massacratori, tiranni e delinquenti vari che hanno insanguinato e distrutto a lungo il suo continente, condannando a morte milioni di innocenti. Ogni suo romanzo, al pari degli articoli, delle recensioni e delle numerose sceneggiature è stato dunque un racconto di sé e della comunità, un’autobiografia collettiva e una boccata d’aria per tutti noi che attualmente ci sentiamo intrappolati in un presente che non ci appartiene, afflitti dalla malinconia e dalla solitudine, dalla nostalgia per gli anni perduti e da una desolante perdita di sogni, illusioni, prospettive, come se la parole non avessero più alcun senso e tutto scivolasse via, stancamente, senza meta, in quest’eterna rappresentazione di un tempo che consideriamo estraneo ma dal quale non riusciamo in nessun modo a liberarci.

Per questo, credo che le parole più adatte per rendergli omaggio siano proprio quelle tratte dal finale di uno dei suoi capolavori, “L’autunno del patriarca”, in un esplosione di gioia e libertà che è oramai un classico della letteratura mondiale: “Aggrappato per la paura agli stracci a brandelli imputriditi della palandrana della morte ed estraneo ai clamori delle folle frenetiche che scendevano nelle strade cantando gli inni di gaudio della notizia gaudiosa della sua morte ed estraneo per sempre alle musiche di liberazione e ai razzi di gioia delle campane di giubilo che annunciarono al mondo la buona novella che il tempo incalcolabile dell’eternità era finalmente terminato”.

Addio Gabo, la parola passa al silenzio.


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