“L’aria serena dell’ovest” è un film di Silvio Soldini, che ben rappresenta l’atmosfera della Milano da bere degli ultimi anni ottanta. Quelli, in controluce, della (ir)resistibile ascesa di Mr. Berlusconi. E’ passata una vera e propria era geologica da quel tempo. Il mondo si è globalizzato e la rete ha più utenti della vecchia televisione. Persino l’Italia è assai diversa.La tv no, lì si respira ancora quel clima. Appunto, il berlusconismo persino senza il caposcuola.
E’ fresco l’orientamento –non ancora una decisione, augurabilmente- dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni di rivedere i canoni di concessione (il termine ormai è desueto, in verità) delle emittenti radiotelevisive. Dio solo sa quale fatica ci volle per introdurre nella legge finanziaria del 2000 il criterio del pagamento allo stato di una quota corrispondente all’1% del fatturato. Prima il contributo dei grandi network era irrisorio: 400 milioni delle vecchie lire per rete. Come ben descrive lo studio al riguardo di Carlo Cambini e di Tommaso Valletti, il costo in Italia per utilizzare un bene comune è molto basso rispetto agli altri paesi. Del resto, storicamente nel settore poco esistono sia lo stato sia il mercato, mentre imperano satrapie e conflitti di interesse.
Ma vediamo se la normativa di riferimento ha davvero obbligato l’Agcom a cambiare, abbassandoli sensibilmente, i canoni. I nuovi criteri di calcolo sarebbero tratti dal decreto legge n.16 del marzo 2012, convertito nella l.44 il successivo aprile. L’articolo 3-quinquies, al comma 4, recita che “Il Ministero dello sviluppo economico applica i contributi per l’utilizzo delle frequenze televisive stabiliti dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ….secondo le procedure del codice delle comunicazioni elettroniche…al fine di promuovere il pluralismo nonché l’uso efficiente e la valorizzazione dello spettro frequenziale secondo i principi di ragionevolezza, proporzionalità e non discriminazione…Saranno gli operatori di rete –come nelle telecomunicazioni, si aggiunge- e non i canali storicamente determinati a dover pagare. Quindi, non Rai ma Rai-Way, non Mediaset bensì Elettronica industriale, e così via. In concreto, quel timido tetto dell’1% del fatturati va a farsi benedire e il mitico “duopolio” risparmierà 40 milioni di euro. Pagheranno molto, al contrario, le emittenti locali, che erano fin qui legate ad una tariffa standard di 17.776 euro. Tuttavia, nella legge citata, varata nell’era del governo Monti e volta –tra l’altro- ad abrogare il contestatissimo “beauty contest” per introdurre l’asta onerosa delle frequenze digitali, si parla esplicitamnente di televisione e si fa riferimento al codice delle comunicazioni elettroniche solo per ciò che attiene alle procedure. Eppoi, il riferimento esplicito al pluralismo. Insomma, c’è materia per un approfondimento ulteriore, onde evitare quello che apparirebbe inesorabilmente un bel regalo alla concentrazione. Che senso ha ridurre i contributi di chi ha potuto giovarsi in questi anni di evidenti privilegi, mentre la mannaia dei tagli si aggira pesante per l’Italia?
E’ urgente avviare una seria e rigorosa “spectrum review”, per introdurre criteri democratici volti a catalogare e a valorizzare l’utilizzo delle risorse tecniche. Gestite impropriamente con logiche proprietarie. Se si facesse simile indagine, verrebbero probabilmente alla luce contraddizioni e sprechi, figli dell’anomalia televisiva. In passato, i piani delle frequenze finirono alla magistratura. Fino a quando la materia rimarrà stregata e non diverrà davvero digitale?
* Il Manifesto, 9 aprile 2014