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Agenda digitale, è ora che l’Italia “cambi verso”

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Eppur si muove. E’ vero, il governo italiano qualcosa sta facendo. Si può (e si deve) eccepire sulla natura propagandistica dell’azione dell’esecutivo. Ha ingranato la strategia del tempo veloce, tipica dell’età della rete. Tuttavia, proprio sulla questione digitale non pare esserci alcun cambio di verso. L’Agenda digitale, istituita dal decreto legge del 2012 sulla “Crescita”, latita.
E’ un prelibato piatto per mille convegni, ma non riesce a liberarsi dalla carta analogica: leggi, regolamenti, decreti ministeriali. Il puntuale fascicolo della Camera dei deputati (Documentazione e ricerche, n.99) dedicato al “Monitoraggio dell’attuazione dell’Agenda digitale italiana” sottolinea come dei 55 adempimenti considerati al 24 febbraio 2014 solo 17 sono stati adottati. Gli annunci –soprattutto per ciò che attiene alla Carta di identità digitale- si susseguono, ma ancora la “rivoluzione” non si vede. Nell’ormai lontana conferenza di Lisbona del 2000 sulla società dell’informazione, il governo del centrosinistra di allora presentò i progetti della carta di identità e della card sanitaria digitali, nonché i piani di alfabetizzazione. Il trend, dopo quell’impennata, fu nuovamente negativo. Il panorama non è migliorato.

Anzi. Il (secondo, dopo quello omologo del 2009) rapporto curato da Francesco Caio per la Presidenza del consiglio chiarisce quanto l’Italia sia in ritardo rispetto all’Agenda digitale europea. Quest’ultima prevede nel 2013 la copertura totale della banda larga base, nel 2020 la copertura totale 30Mbps e il 50% della popolazione connessa a 100 Mbps. La versione italiana si ferma all’incirca alla metà. Come è metà della popolazione italiana la parte toccata attualmente in qualche modo dalla banda larga fissa. Il ritardo non è neppure una mera vicenda temporale e non si può considerare una pur amara e sgradevole patologia.
E’ la fisiologia del sistema italiano, squilibrato da un ingombrante e prepotente baricentro pantelevisivo. E’ una storia antica, che risale alla seconda parte degli anni settanta. Allora ebbe luogo la “stecca” che, come in un’opera lirica, segnerà il resto della storia medesima. La Rai e la Sip (l’azienda telefonica di stato si chiamava ancora così) erano i monopolisti assoluti nei loro rispettivi territori. E non vollero incrociarsi. La proposta di introdurre la televisione via cavo portò persino nel ’73 ad una crisi di governo e non se ne fece nulla. Al monopolio nella radiodiffusione si sostituì una liberalizzazione non regolata, il cui esito fu presto la concentrazione, piuttosto che una vera apertura del mercato.

L’esplosione del mondo radiotelevisivo catalizzò interessi e risorse, allontanando e minimizzando la necessità di uno sviluppo integrato e tecnologicamente plurale. L’assenza di una seria normativa antitrust, il conflitto di interessi di Berlusconi, l’attenzione spasmodica del mondo politico verso la tv hanno fatto il resto. La “stecca” originaria ha condizionato e condiziona il quadro generale: l’anomalia italiana, quindi, è ben diversa da un ritardo. E’ un mix di arretratezza complessiva e di un fortissimo digital divide. Perché, ovviamente, esistono aree evolute perché privilegiate.

Non si spiegherebbe, altrimenti, nel paese del boom della telefonia cellulare o della tradizionale consuetudine a seguire le novità, tanta difficoltà. La linea telecentrica ha condizionato molto anche la cultura dei consumi, facilitando la fruizione passiva rispetto ad una matura alfabetizzazione informatica. Se non si rompe un simile circuito vizioso non si entra nella modernità. Basti pensare che digitale è stato per anni considerato un aggettivo di televisione, non già il sostantivo cruciale della produzione post-fordista e dell’età della rete. Non sembri un paradosso: per vincere la battaglia della “banda larga per tutti” serve una scelta culturale, prima ancora che un investimento tecnico.

Portare nella società il sapere digitale è il primo compito di uno stato democratico. Scuola, università, servizio pubblico radiotelevisivo devono mettere in cima ai propri obiettivi la conoscenza della e nella rete. Per costruire una domanda adeguata, in grado di imporre una svolta dell’offerta. La frontiera a nord ovest è proprio la riforma della cosa pubblica, dell’amministrazione. Ma anche su tale necessità, ovvia e certo inderogabile, è indispensabile la coerenza della lotta politica. Per introdurre davvero le culture digitali serve una rivolta democratica che costruisca nuove élite e altri gruppi dirigenti. Protocolli e fatturazione digitali, software libero, open data, gestione partecipata sono tasselli di un mosaico tuttora inedito in Italia.

Non si immagini di traguardare verso il nuovo mondo senza rivedere profondamente il vecchio. E già, perché nulla si crea dal nulla ed è bene guardarsi da un certo infantilismo, in base al quale l’era digitale si invera con la pura volontà. Se non si sblocca il vasto e contorto settore cresciuto nell’epoca analogica con una decente regolazione antitrust, il centro di gravità non si sposta. Così, se non si governa la transizione verso l’on line dei giornali, un mare di risorse viene abbandonato e sprecato. L’uscita dal predominio della televisione richiede una vera riforma di quest’ultima. Per attuare il principio della “remediation” e della “mediamorfosi”: la base del rinascimento tecnologico e culturale. Uno dei punti chiave riguarda il riordino delle frequenze. Va attuata lo “spectrum review”. Uno degli effetti collaterali del conflitto di interessi berlusconiano è il tabù che ha sempre avvolto la pianificazione delle frequenze, di cui si occupò anni fa la magistratura.

La radiofonia non ha mai avuto un piano e la televisione è irta di fili spinati. Non solo. Esiste una notevole quantità di frequenze tuttora attribuita al ministero della difesa o ad altri ambiti pubblici che potrebbe essere riutilizzata. Di numerose frequenze forse neppure si sa. Va ribadito che lo spettro fa parte dei beni comuni e non è né una proprietà privata dei broadcaster né un’eredità di tempi andati, magari della guerra fredda. Ecco, per questo è essenziale completare con serietà la gara per l’assegnazione delle frequenze digitali, ancora ferma nelle pastoie burocratiche.

Tra l’altro, se così vanno avanti le cose, tanto vale attribuirle a titolo gratuito alle università, alle istituzioni formative o alle attività non profit: un po’ come prevede la legge in vigore in Argentina dal 2009. Il discorso si potrebbe allargare molto, a cominciare dal ridisegno di una Rai adeguata ad una visione evolutiva del servizio pubblico. Questo in vista della scadenza nel 2016 della concessione tra lo stato e l’azienda, da confermare –guai a cedere a surreali tentazioni privatizzatrici- ma in una logica diversa. Articolo 21 sta conducendo una straordinaria campagna nelle scuole di coinvolgimento degli studenti nella delineazione di una rinnovata idea di servizio pubblico. E “Move on”, struttura legata alla società civile, sta approntando un bellissimo disegno di riforma, centrato sull’affidamento di una quota rilevante della gestione direttamente agli utenti.

Neutralità della rete, open data, accesso aperto, free software, privacy, revisione del copyright per via legislativa e non con un discutibile regolamento dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni: ecco alcuni dei nodi di una politica delle comunicazioni rappresentativa della contemporaneità. Insieme all’attualità dei big data. E’ bene intendersi. Non stiamo parlando di un compito della politica, bensì della politica, che oggi è cultura e comunicazione. Non propaganda, bensì interpretazione dell’intelligenza connettiva prevista da Derrick de Kerckhove e dell’era informazionale descritta da Manuel Castells. Per citare alcuni dei principali riferimenti cui guardare.

La rete e il digitale sono la metafora del cambiamento. E’ bene che l’Italia immagini –come da tempo suggerisce Stefano Rodotà- un “Internet Bill of Rights”, che ci rimetta di nuovo nel dibattito internazionale sulla governance democratica della rete. Tra l’altro, il governo è stato assente dall’ultimo appuntamento di Bali dell’ “Internet governance forum” e il dibattito pubblico su tali materie è paurosamente scemato. Malgrado la vicenda del controllo autoritario dei dati da parte dell’americana “National security agency”sia esploso e gli stessi Stati Uniti siano stati costretti a ridimensionare il proprio predominio su “Icann” (Internet corporation for assegned names and numbers, l’attribuzione dei domini), poco si discute. Il Brasile, al contrario, ha varato il “Marco civil”, la normativa dedicata proprio al riconoscimento dei diritti digitali. E ha ospitato l’importantissimo appuntamento concluso a San Paolo, il “NetMundial 2014, fissato proprio per discutere il futuro della rete. E l’Italia cosa ha fatto?

Del resto, come fu già negli anni settanta in Italia con lo Statuto dei lavoratori o la riforma della psichiatria –e non solo- è il diritto a dover rispecchiare la realtà in trasformazione. Non viceversa, altrimenti si creano fratture inesorabili. Il cosiddetto ritardo italiano, dunque, è un problema della debolezza della politica e della scarsa comprensione della mutazione storica in corso. Detto per inciso: qui passa anche la ri-costruzione di una sinistra, che si sbrighi a cogliere a sua volta i cambiamenti strutturali e la fisionomia delle soggettività diffuse. E’ il nuovo bagno di realtà necessario.

* Pubblicato su “l’Unità”


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