Vero o falso che sia stato (fata Morgana, eden dei disperati), il “sogno americano” degli anni ruggenti, della Hollywood idolatrata nel “Grande Gatsby”, ha avuto in Mickey Rooney (scomparso pochi giorni fa a 93 anni di fresca energia e buona salute), la sua conferma, la sua rassicurazione tangibile, dirompente, talvolta irascibile (ma solo quando alzava di gomito). Il “sogno” più o meno famigerato, più o meno evocato da Andy Warhol (ma solo per ‘un quarto d’ora’) secondo cui la grande’ ‘opportunità della vita’ passa per tutti, e che il treno per Yuma non accetta sabotaggi alla sua tabella di marcia.
Mickey Rooney, quel treno, lo aveva acciuffato (inconsapevole,è ovvio) ad appena due anni,figlio di un cabarettista immigrato da Gaslow, sui palcoscenici dei vaudeville della Grande Mela o in viaggio verso le più disagiate destinazioni imposte dall’arte di famiglia. Con tappa a Santa Monica ed inserimento, a cinque anni, quale ‘enfant prodige’ loquace, tracotante, sbarazzino nel cast di “Not to be trusted”, cui fece seguito la saga cinematografica del personaggio Andy Hardy, iniziata nel 1937 con “Affari di famiglia” e proseguita per serial e revival, indefessamente, sino al 1958
Eclettico, dirompente, sanguigno (parola d’ordine: ‘piccolo è bello’, ma soprattutto birbone, travolgente, pestifero), Mickey era soprattutto vorace di vita e bulimico di seduzioni: dagli appetiti erotici a quelli gastronomici, dal’impossibilità di star fermo un attimo (sino all’esagitazione psicotica) al satollo piacere di procreare per ‘confermarsi a se stesso’ (nove figli con otto diverse compagne, tutte legalmente impalmate ed in grazia di Dio). In vita e sugli schermi, goloso d’ ogni novità che avesse a che fare con l’esperienza ludica, inattesa, gaudente. E in uno stato d’ebbrezza e ghiottoneria che lo portava a strafare, esibirsi, esagerare con il ‘gasato’ entusiasmo di chi ha voglia, per rivalsa fisiognomica, di dominare sui ‘più alti’ e più disponibili a tenergli bordone: per opportunismo o piaggeria, rispetto a un uomo ‘che non badava a spese’.
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Se il termine ‘piccolo diavolo’ non rimandasse noi tutti al personaggio sapido e sulfureo di Roberto Benigni, Mickey Rooney avrebbe potuto rivendicare il primato della più ‘freudiana compensazione’ alla faccia di una struttura fisica tarchiata, espansa, quasi rotolante, il cui disagio era perfettamente dissimulato, anzi esorcizzato da uno tsumani di baldorie ed oblio, solennizzato dalla rinomata capacità di seduttore in ‘missione inpossibile’, ma sempre (o quasi) compiuta.
Del resto, amato e rispettato da tutto lo star system Rooney – in tutta la sua vita-non aveva smesso mai di vivere e lavorare in una specie di osovrimpressione fragorosa tra ‘pubblico e privato’. Ancorando, ad esempio, il suo presenzialismo televisivo al cast dei “Muppert” protrattosi sino a circa dieci anni fa. Ed artisticamente più longevo della leggendaria Lilian Gish (che aveva esordito quando il cinema era ‘muto’), Rooney fu un habitué dei set cinematografici sino alla soglia dei novant’anni, ottenendo un ruolo di tutto rispetto nel pimpante “Una notte al museo” di Ben Stiller (dove esclamava con ghigno sornione “sogni d’oro frittatina…!” a uno spiaccicato avversario)
Fanciullo prodigio, divo adolescente e primo marito (tempestoso) di Ava Gardner, Mickey Rooney era il prototipo (irresistibile) del ragazzo ribelle nella filiera dei lungometraggi più redditizi marcati MGM: in alcuni dei quali recitò a fianco di Judy Garland, alla quale fu legato da affettuosa amicizia e probabile flirt . Furono i gloriosi lustri di “Capitani coraggiosi” (1937) e “La città dei ragazzi” (1938) coprotagonista con l’inarrivabile Spencer Tracy. E, successivamente, voluto da Truman Capote per “Colazione da Tiffany” (icona filmica della Audrey Hepburn anni sessanta) , dove interpretava l’eccentrico vicino di casa (giapponese) della smarrita ‘cerbiatta’ amata da George Peppard.
Oscar ‘giovanile’ nel 1939 per “Ragazzi attori “ e l’Oscar alla carriera nel 1983, Rooney intensifica, negli anni settanta, l’attività teatrale, a discapito del cinema, con le sole eccezioni del pugilistico “Una faccia piena di pugni “ (che non è “Toro scatenato”, ma nemmeno da gettar via) e l’avventuroso “Black Stallion” che ebbe scarna distribuzione in Italia. Negli anni ottanta Mickey non perde l’occasione (narcisista) di farsi scritturare da ‘guest-star’ nella melensa serie dei “Love Boat” a spasso per improbabili fiordi; ed in quella molto più onorevole de “La signora in giallo” con Angela Lansbury. A cavallo del millennio è ancora frenetico di ‘afferrare la mela’ , recitando con Ann Miller a Broadway in “The wonderful Wizard of Oz”, “C’era una volta Hollywood”, documentario ossequioso della Metro Goldwyn Mayer, e doppiando se stesso nell’episodio “L’Uomo Radioattivo” nel cartone animato “I Simpson”. Come dire? Non ne perdeva una – non per avidità quanto per il terrore di ‘non esserci’, di non far più ‘parte in commedia’.
Al tirar delle somme, non dovrebbe (da lassù?) lamentarsi.