Ancora una volta si tratterà del conflitto di interessi. Un tormento senza estasi. E del tema strettamente connesso dell’ineleggibilità, strettamente inerente alla riforma elettorale. Ecco, poco prima della mezzanotte di giovedì 6 marzo è stato bocciato il primo (in ordine di discussione) degli emendamenti presentati sull’argomento, primo firmatario il deputato dei “Popolari per l’Italia” Gregorio Gitti. Che non è noto alle cronache come un bolscevico, bensì come professore di diritto civile e figlio d’arte . Altri emendamenti omologhi (anzi, di maggior chiarezza) sono stati trascinati nell’ inferno dalla bocciatura. E quale bocciatura. 319 no, 157 sì e 5 astenuti. La stragrande maggioranza del partito democratico si è adeguato alle indicazioni del gruppo, volte a custodire come una reliquia il testo della cosiddetta riforma elettorale. L’emendamento estendeva le tipologie previste dalla legge n.361 del 1957 ai concessionari di beni e servizi pubblici.
La televisione, ora attribuita con più semplici licenze o autorizzazioni generali, rientra in pieno in tale casistica. Niente da fare. L’Italia si conferma un paese a sovranità limitata nel luogo tuttora principe nella costruzione degli immaginari collettivi e del clima di opinione. Non dell’opinione pubblica che, tecnicamente, vive solo nelle minoranze morali del bel paese. Il conflitto di interessi è “la grande bruttezza”, la metafora della crisi di una sfera pubblica incapace di sottrarsi alla dittatura dell’audience. La quale –del resto- ha fatto scuola nella stessa sintassi della politica: tesa quest’ultima a cercarsi il consenso dei corpi televisivi, piuttosto che delle intelligenze diffuse. E’ diventato progressivamente chiaro che non vi è alcuna volontà di mettere mano alle regole del e nel rapporto tra “media and politics”, cui la cultura anglosassone ha dedicato pagine ed atti molto importanti. Lì un caso Berlusconi non sarebbe mai esistito e la tracimazione nello spettacolo della politica non era e non è prevedibile. L’unica legge sulla materia approvata in Italia è quella del 2004, voluta dall’allora ministro Frattini. Come viene osservato nell’interessante volume di Claudio Marchetta (2013) l’ipotesi di introdurre il “blind trust” (la custodia in un fondo cieco)presuppone che si possa distinguere tra proprietà formale e proprietà sostanziale, scissione improbabile nel diritto italiano, ispirato al principio di unicità del diritto di proprietà. Tra l’altro, nel capitalismo nostrano, spesso arretrato e familiare, la differenza diventa impossibile. Come se Silvio B. non avesse influenza sulle decisioni laddove un fondo cieco detenesse le azioni di Mediaset…. Ciò vale anche per le supposte leggi organiche già depositate. Il voto dello scorso giovedì ha chiarito che il patto tra Pd e Forza Italia è vivo e vegeto, dotato di un impressionante potere di condizionamento. La stessa, pur tanto diversa, vicenda delle ”quote rosa” ha a che vedere con il maschilismo mai morto, ma pure con i vincoli della camicia forzata in cui si muove il nocciolo duro dell’alleanza.
Il governo presieduto da Matteo Renzi corre velocissimo su un territorio minatissimo e scivoloso, sopra un vulcano che potrebbe prima o poi eruttare i suoi fuochi. Si ha un bel dire che si intende alzare la voce in Europa, quando sull’affare televisivo siamo in permanente procedura di infrazione. Da patologia a fisiologia. L’ultimo voto ci ha detto la verità sulla situazione in cui viviamo, e in cui muore la politica. Quanto ci manca Bertold Brecht, che avrebbe raccontato da par suo l’odierna opera da tre soldi.
* da “Il Manifesto”