Benché si cimenti ormai da quasi dieci anni nella difficile arte di governare, Matteo Renzi sembra non aver ancora acquisito un elemento fondamentale della politica, ossia l’autocontrollo. Perché, ahinoi, bisogna ammettere che questo Premier è davvero sfrenato: nella velocità, nei toni, nei modi e, purtroppo, anche negli errori e, talvolta, nelle gaffe, come quando si permette di definire i corpi intermedi “forze della conservazione” e li sfida apertamente su un terreno che, al contrario, dovrebbe essere comune. O come quando non si accorge che, fra i suoi numerosi poteri, non è ancora previsto da nessuna legge quello di imporre alcunché, dato che ogni singola proposta, compresi i decreti legge, deve poi essere sottoposta al vaglio del Parlamento per un’eventuale conferma o revisione.
Induce, pertanto, a sorridere questo mito futurista della velocità, questa frenesia senza limiti, quest’ardore riformista e un po’ avventato che da qualche mese sembra essersi impadronito del PD e, in particolare, del suo segretario e del suo gruppo dirigente; come induce a riflettere, ma stavolta senza alcun sorriso, la complicità pietosa e priva di dignità di una parte del mondo dell’informazione, sempre pronto, per dirla con Flaiano, “a correre in soccorso del vincitore” e a sostenere anche l’indifendibile, evidenziando un conformismo e una sudditanza psicologica al potere da Repubblica delle banane.
Per andare sul concreto, basti esaminare i provvedimenti più dibattuti in queste settimane: l’Italicum, la riforma del Senato e del Titolo V e il decreto Poletti sul lavoro. Al netto delle slide, dei pesciolini rossi e dei toni da banditore esibiti dal Presidente del Consiglio, se osserviamo da vicino le singole riforme notiamo che: l’Italicum approvato dalla Camera, e valido solo per essa in attesa delle modifiche costituzionali, è un pateracchio a forte rischio di incostituzionalità; la riforma del Senato è ancora in alto mare e, al momento, resta avvolta da annunci spot sui quali è opportuno sorvolare; la pur giusta rivisitazione del Titolo V (uno dei massimi errori del centrosinistra, figlio di uno dei tanti cedimenti della sua classe dirigente al destrismo e al leghismo imperanti da un trentennio) è anch’essa avvolta nel mistero, in attesa di conoscere i contorni e le attribuzioni della nuova, presunta “Camera delle Autonomie” e il decreto sul lavoro targato dal povero Poletti è una contraddizione in termini perché, da una parte, esalta per decreto i dogmi del liberismo (dunque la flessibilità, la precarietà del lavoro, l’assoluta mancanza di tutele, lo strapotere di quelli che un tempo venivano chiamati i “padroni” e il rafforzamento del dualismo tra i “garantiti”, se ancora si possono chiamare così, e i giovani, privi oramai di qualunque diritto e di ogni dignità) e dall’altra premia, con legge delega, una delle migliori intuizioni di quel poco che rimane del pensiero di sinistra, ossia il contratto di inserimento a tutele crescenti.
Peccato che in pochi abbiano ricordato a Poletti che le due cose si elidono a vicenda perché un datore di lavoro messo nelle condizioni di assumere un giovane con un contratto ultra-precario, rinnovabile per otto volte nell’arco di trentasei mesi, privo di causali e, addirittura, privo dell’obbligo di formazione, difficilmente sceglierà di applicare un contratto assai più equo e funzionale alla risoluzione della piaga allarmante della disoccupazione giovanile e al rilancio industriale del Paese.
Non lo farà perché oramai, con buona pace dell’onesto Squinzi, nel mondo imprenditoriale più che altrove hanno fatto breccia i mantra del “libero mercato”, in base ai quali per essere competitivi bisogna puntare unicamente sull’offerta a scapito della domanda e per competere con i mercati deregolamentati delle economie emergenti, anziché investire sulla qualità, il genio e la creatività italiana, è necessario contrarre i salari e rivedere al ribasso le tutele sindacali dei lavoratori.
E pazienza se il liberismo ha fallito ovunque, pazienza se ha generato la più grave crisi dal 1929, pazienza se il nostro debito pubblico, negli ultimi sei anni, è aumentato di quasi seicento miliardi, pazienza se il nostro PIL è crollato di nove punti percentuali, pazienza se abbiamo una disoccupazione a due cifre, pazienza perché una parte degli industriali ha bisogno di mostrare i muscoli e riaffermare il proprio predominio sulla classe operaia e il Premier ha fretta di far vedere al mondo quanto è bello, intelligente, robusto, dinamico, riformista e in grado di riuscire là dove tutti gli altri hanno fallito negli ultimi vent’anni.
Senza contare il pericolosissimo piano messo a punto dal commissario Cottarelli, che finirebbe con lo smantellare definitivamente il concetto stesso di stato sociale, e il pacchetto di privatizzazioni di cui si parla da giorni e che ci auguriamo di cuore non risponda a verità, trattandosi di interventi che andrebbero a colpire asset strategici come l’ENI e l’ENEL, con la conseguenza di non intaccare sensibilmente la montagna del debito pubblico e, in compenso, di indebolire ulteriormente sul piano internazionale un Paese le cui maggiori industrie si sono già, di fatto, trasferite all’estero o sono state fagocitate dai colossi di quei paesi che, stando a tutte le stime e le analisi, domineranno il mondo nel Ventunesimo secolo.
Se a questo aggiungiamo la folle decisione, sempre figlia dei cedimenti della sinistra al pensiero unico liberista, di inserire il fiscal compact in Costituzione, stravolgendo l’articolo 81 e condannando il Paese a vent’anni di devastazione del welfare, comprendiamo ancora meglio quanto siano stretti i margini di manovra entro i quali può operare un Premier fragile, oggettivamente inesperto, privo di una maggioranza omogenea, capace di inimicarsi in pochi giorni tanto Squinzi quanto la Camusso e alle prese con la minoranza interna del suo partito che, invece di ascoltare, continua sistematicamente a mettere all’angolo.
In poche parole, abbiamo a che fare con un caterpillar dai cingoli poco oliati che avanza a testa bassa e carica come un toro a Pamplona contro tutti quelli che definisce “agenti della conservazione”, ossia coloro che non si sono mai rassegnati ad alcuna forma di pensiero unico e non intendono cominciare adesso.
Stavolta, però, la posta in gioco è altissima perché, quando si parla di diritti dei lavoratori e riforma della Costituzione, in ballo non ci sono più solo le sorti di un partito o di un movimento ma il concetto stesso di comunità e democrazia e, più che mai, la nostra tenace resistenza morale, culturale e civile allo scadimento dei rapporti umani, alla mercificazione della dignità delle persone, alla scomparsa di qualunque idea di collettività, alla devastazione di quell’idea olivettiana di percorso comunitario di cui avrebbe, invece, tanto bisogno la nostra disastrata industria e, in conclusione, alla riduzione della politica ad un susseguirsi di slogan e sparate populiste che consentono ai poteri forti e occulti di tirare i fili e dormire sonni tranquilli mentre le piazze e le urne si riempiono della disperazione di un popolo cui non basta più qualche battuta e qualche annuncio per sentirsi sereno.