Qualche tempo fa esprimevo, proprio su questo sito, un’amara considerazione: il Darfur finisce in prima pagina solo quando delle vicende umanitarie della regione sudanese parla un artista famoso o qualche italiano viene rapito da miliziani senza scupoli. Sarà che oggi di conflitti e tragedie di popoli vessati da guerre, fame e malattie se ne contano più di quanti spazi i media italiani dedichino agli esteri, questa volta non è bastato neanche questo.
A raccontare la vicenda di due turisti italiani attaccati da un gruppo armato nel Darfur centrale poche agenzie di stampa e qualche giornale online.
I primi a diffondere la notizia sono stati i colleghi dell’emittente indipendente del Darfur, Radio Dabanga. A confermarlo fonti dirette di Unamid contattati dalla sottoscritta. I due uomini, di 33 e 41 anni, erano in viaggio verso il Ciad su una Land Rover. Sono stati bloccati da un gruppo armato sulla strada da Nyala a El Geneina, nei pressi di Nierteti. L’episodio è avvenuto poco prima dell’alba di martedì 4 marzo, verso le 5 a Kubr el Nahal. Entrambi sono stati picchiati e hanno riportato lesioni curate all’ospedale di Nierteti dove sono stati prelevati dall’Intelligence Security Service sudanese (Niss) che li ha trasferiti a Zalingei, dove sono stati interrogati e trattenuti per alcuni giorni.
Non è ben chiaro se i due avessero il permesso di viaggio in Darfur, sapendo quanto sia difficoltoso ottenerlo ritengo di no. Ed è per questo che la notizia, oltre che preoccupare, sconcerta. In questa regione del Sudan martoriata da undici anni di conflitto si va per aiutare le popolazioni locali in difficoltà, per fare cooperazione. Nessuno affronta un viaggio in Darfur con leggerezza.
In Darfur si muore. Per gli stenti di una vita al di sotto del limite di sopravvivenza e per le bombe sganciate dagli Antonov delle Forze armate sudanesi. Italians for Darfur lo ha mostrato, lo ha denunciato, ancora una volta, lo scorso 26 febbraio con il consueto rapporto annuale sulla crisi. ”Nessuno può e deve abituarsi ai bombardamenti sui civili come quelli mostrati durante l’audizione in Commissione Diritti Umani”. Sono state le parole che il presidente della Commissione Diritti umani Luigi Manconi ha rivolto ai senatori che erano in Sala Nassiriya, a Palazzo Madam, al termine della visione del video che testimoniava le violazioni perpetrate in questo paese. Le evidenzio perché sono tra le poche che si sono levate contro la violenta repressione in atto in Sudan nei confronti di civili inermi. Era la prima volta che veniva permesso di proiettare, come prova documentale, le immagini dei bombardamenti sui villaggi che il governo sudanese, guidato dal presidente Omar Hassan al Bashir ricercato dalla Corte penale internazionale, ha sempre negato.
Era da novembre che raccontavamo la ripresa dei raid sul Darfur e sul Sud Kordofan, area in cui da maggio si sta concentrando un’azione militare che coinvolge la popolazione dei Monti Nuba. Ma nessuno, né media né apparati istituzionali, ci avevano dato ascolto. E’ per questo che nell’annuale presentazione del Rapporto, nel giorno dell’anniversario dell’inizio della guerra in Darfur (26 febbraio 2003), è stato chiesto di allegare al dossier realizzato dall’associazione italiana in collaborazione con Unamid, il video di uno degli episodi più cruenti che è stato possibile vedere riferiti al Sudan.
A undici anni dalle prime violenze documentate, che hanno lasciato sul campo 300mila morti e oltre due milioni di sfollati in Darfur, non si profila nessuna soluzione al conflitto. Anzi, la situazione si è aggravata perché in Sudan si sono aperti altri fronti.
Le notizie che arrivano attraverso il bollettino del contingente di peacekeeping dispiegato in Darfur, aggiornato quotidianamente sugli sviluppi della crisi e sui progressi della missione, confermano che i nuovi sfollati sono oltre 150mila.
C’è la certezza che anche questo dato abbia sollecitato il ministro della Difesa Roberta Pinotti a intervenire in merito al Darfur mentre al Senato si discuteva del rifinanziamento del decreto missioni annunciando che, se possibile in condizioni di sicurezza, il governo italiano “non lascerà soli questi territori dove stanno succedendo cose che ci preoccupano molto”.
La speranza è che alle promesse seguano presto azioni concrete.